«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

mercoledì 30 novembre 2016

Le solitudini e i luoghi - VII e VIII


Amiche care, amici,

vi propongo, come da programma, il quarto appuntamento con la mia raccolta di composizioni in omaggio alla antica forma poetica del sonetto.

In questo caso si tratta di due immagini a contrasto: da una parte la solitudine claustrofobica e confinata della propria stanza, del proprio letto, dopo una delusione d'amore, e un abbandono, o anche semplicemente una pertenza o una assenza prolungata della persona amata. Dall'altra la solitudine mitica e mistica di una alta cima dolomitica, quale ho frequentato in passato con passione e - diciamolo - una buona dose di ardimento, o forse piuttosto di presunzione.
Da una parte una solitudine oggettiva, chiusa in sé, dall'altra una solitudine metaforica e metafisica, aperta alla conoscenza, e in aperta sfida con i miei limiti.

(Anche in questo caso, al numero VIII, un sonetto ipermetrico con chiusa in distico, in coda, ma con un solo verso aggiunto.)

Amiche dilette, amici, grazie di cuore per seguirmi in questa piccola avventura di parola e memoria.

Con amore

M.P.







Le solitudini e i luoghi



VII
Giaciglio

Lei, stremata dalla amara giornata
sguscia dall'abito nero, si lascia
precipitare nel letto avvinghiata
all'oblio, ma un disagio le cresce
dall'anima fino a lederle il cuore:
non è più lei ora, la donna ferita,
su quelle coltri, è solo il dolore
che oltraggia la sua mente sfinita.
Quel vuoto che le nega il calore,
quello spazio deserto al suo fianco,
quel desolato silenzioso candore
di lino, i guanciali ornati a ricamo
senza quel volto su di essi posato,
è come sentirsi morire pian piano.


VIII
Vetta

Incantata, la giovane mente che muove
il giovane cuore, contempla l'ardita via
ancora inviolata, com'è inviolato il suo ardore;
la donna che ospita il cuore adagio s'avvia.
Respirare costa fatica, e muovere i passi
su quelle pietre taglienti, in bilico al cielo,
è un greve cimento, e forse è folle provarsi
ad oltrepassare sé stesse, oltre il velo
che acceca gli occhi nell'aria più e più rarefatta,
con i piedi che si fanno più grevi dei massi,
e il sole che attende spietato la sua disfatta.
Ma per quanto sia aspra e dolorosa la strada
ciò che attende la donna, nonostante l'opporsi
di ogni ragione, è quella spoglia e rada
vetta, pura e affilata, vergine spada.



Marianna Piani
(Marzo 2016)
.

sabato 26 novembre 2016

Le solitudini e il luoghi - V e VI


Amiche care, amici,

come da programma, ecco per voi il terzo appuntamento con questa mia raccolta, tutta centrata sulla forma del sonetto classico, sposando in qualche modo la tradizione italiana - millenaria - e quella inglese, da Shakespeare e dintorni in avanti.
Questa forma non è stata in realtà mai abbandonata, neppure da Autori moderni e contemporanei, la cui opera è per altro in esplicita contrapposizione con le accademie del loro tempo. Questo dimostra la vitalità inusitata di questa forma, nobilissima ma per nulla restia a "sporcarsi le mani", per così dire, con la modernità. La sua forza sta nella sintesi e concentrazione cui costringono quei quattordici versi, sia nella scrittura che in lettura, nella sua mirabile eleganza e  perfezione formale (quando ben riuscita, si capisce) unita alla sua straordinaria musicalità, senza però abbandonarsi alla emotività pura della canzone.

Le due composizioni seguenti, abbandonati per il momento i luoghi della Natura, sono due composizioni che potrei definire "urbane". La città è il luogo della solitudine per eccellenza: proprio qui, tra la folla, o invece quando quella stessa folla lascia quei luoghi - nel cuore della notte - deserti, si percepisce più forte il senso della propria povera, umanissima, disperata solitudine.
Il quinto della serie, "Pioggia", è un sonetto un poco "anomalo", come avrete notato, in quanto si sviluppa in 16 versi anziché i canonici 14. Naturalmente per me le ragioni del senso, del contenuto emotivo e della narrazione sopravanzano quelle della forma, e possono, all'occorrenza, forzarla. Ma se non si vuole far "esplodere" la forma canonica in qualcos'altro, che sonetto non è più, occorre prendere qualche precauzione, in questo caso si tratta di una chiusa in distico, così da preservare l'architettura dei 14 versi, con la semplice "aggiunta" - per così dire - di un transetto coerente in sé, senza interrompere l'armonia della navata centrale.

Amiche dilette e amici, vi lascio alla lettura, con immensa gratitudine per la vostra presenza, affettuosa e costante, e, come sempre, con amore.
M.P.






Le Solitudini e i Luoghi

 


V
Pioggia
Battito lieve sul vetro e sull'imposta,
le vetture tracciano scie fruscianti
di pulviscolo e schiuma, costanti
passaggi di anime spese, senza sosta.
Quella ragazza, laggiù sulla via
si ripara sotto un pergolato,
gelata, la pioggia sull'incarnato
del bel viso scava malinconia.
I sandaletti leggeri non sono
adeguati a guadare da quel lato
di strada fino al portone vicino
di casa, e alla salvezza. Indugia:
un poco piangendo sulla sua sorte
d'amata, un poco lasciando la pioggia
scendere adagio sulle bianche gote.
Lei e quella strada, deserte e immote.


 

VI
Notte

Una nebbia candida, opalescente,
come uno scialle di seta e di neve
avvolge la piazza, e il viale, e imbeve
lo sguardo e il respiro di umida quiete.
La notte è già greve, eppure v'è luce
più che un coltivo a maggio, o così pare.
Ogni suono si scorpora e muore
in questo strano fulgore, e ogni voce.
Sostare in mezzo a quel nulla apparente
ad ascoltare il silenzio che sprofonda
il mondo in un torpore incosciente.
Lasciare sorgere il canto che esonda
dal cuore pervaso, in quest'aura dolente,
da un ardente brama di pace - e d'ombra.


Marianna Piani
(Milano, 4 Marzo 2016)
.

mercoledì 23 novembre 2016

Le Solitudini e i Luoghi - III e IV



Care amiche, amici,

terzo e quarto "sonetto" delle collana che avevo iniziato a proporvi la settimana scorsa.
Come dicevo, saranno quattordici composizioni legate da due tracce comuni: da una parte la forma, sono infatti tutti "sonetti classici", dall'altra la tematica, tutta ispirata ai luoghi della mia infanzia e adolescenza, che sono rimasti nella mia esperienza lo specchio della memoria e della mia anima profonda. Ho intitolato la collana alle solitudini che in questi luoghi mi hanno sempre accompagnata, anche quando mi ci inoltravo (e mi ci inoltro) in compagnia di qualcuno, amica amico o amante. "Solitudini" e non "solitudine", perché ogni luogo offre una sua propria solitudine, da vivere e assimilare.

In questa raccolta ho voluto utilizzare con una certa larghezza rime ed assonanze, secondo gli schemi e i canoni classici della versificazione, ovviamente su una predominanza metrica dell'endecasillabo.
Non amo moltissimo la rima, una delle caratteristiche formali di cui più efficacemente la prosodia moderna ha saputo liberarsi. Questi appuntamenti essenzialmente fonetici mi sono sempre apparsi dei vincoli "scomodi" allo scorrere libero del pensiero, all'espressione piena dell'emozione.
D'altra parte sapete come consideri il "verso libero" un modulo ormai largamente superato, a disposizione più che altro di quei dilettanti che immaginano di far poesia semplicemente andando a capo dopo due, tre o più parole di un fraseggio che rimane - quando va bene - ineluttablimente prosastio.
La rima, come il metro, in questo aiuta, anche se ovviamente non risolve un bel nulla: un verso poeticamente mediocre o nullo, rimane mediocre o nullo anche se metricamente "perfetto".
La rima in questo è la più insidiosa delle formule: occorre una straordinaria abilità (e talento, e urgenza di espressione) per evitare l'effetto "vispa Teresa" o, quando va bene, il "finto antico".
Ma in questo caso io desideravo che il mio "omaggio alla forma" fosse pieno e senza compromessi, e quindi la rima era inevitabile. Naturalmente ho lavorato su questo con tutta la libertà e intensità che pa prosodia contemporanea ci mette a disposizione. Il linguaggio è antico, antichissimo, ma gli strumenti sono moderni, attuali. In fondo anche questa una sfida nella sfida.


Alla fine è stata devo dire un'esperienza impegnativa ma esaltante. La mia compagna è una musicista (e di gran talento, un bacio cara!), e mi ha più volte raccontato della sua esperienza nel comporre un pezzo, con tutti i vincoli e le scelte tecniche, formali e di linguaggio che questo comporta, scegliendo tra tonalismo e atonalismo, elaborando la melodia (l'idea) in un tessuto armonico, ritmico e timbrico coerente ed espressivo.
Nello scrivere questi versi, ho potuto comprendere come non mai la straordinaria magia del suo lavoro.

Grazie per essere con me, amiche dilette e amici, vi lascio alla lettura,
con amore

M.P.






Le Solitudini e i Luoghi


III
Cielo

Foglie d'erba come un umido bacio
m'avviluppano le spalle, e le braccia,
una formica sul piede va a caccia
dei suoi semini, o del proprio coraggio.
Sotto di me sento premere il maggio
orgoglioso di vita e l'onda verde
della giovinezza che si disperde
nel soffio di brezza che spira sul poggio.
E mi sovrasta una volta di luce
così cobalto che quasi m'opprime,
e il volo bizzarro d'un corvo conduce
lo sguardo e il pensiero fino al confine
del cielo col prato, fino alla voce
di un canto che va già oltre la fine.


IV
Foresta

Il sentiero s'insinua tra le betulle
e le felci, così il mio cuore procede
passo passo, sorretto dalla fede
nella propria saldezza, sale sulle
memorie come il torrente che erode
pietra su pietra, sasso dopo sasso,
il crudo granito; ma ora, e adesso,
attorno a me è l'abetaia che esplode.
Tra i rami lampeggia un pallido sole,
pulviscolo fine fluttua nei raggi,
un picchio isolato chiama l'amore.
Io che svago da tempo in quei paraggi
tra amore inespresso e amore negato,
attendo che il folto si spalanchi al creato.



Marianna Piani
Marzo 2016


sabato 19 novembre 2016

Le Solitudini e i Luoghi - I e II


Amiche care, amici,

mi piace, di quando in quando, comporre quello che si potrebbe chiamare un "ciclo", o una collana, cioè una serie di composizioni nate quasi di seguito una all'altra e legate da un filo sottile non solo di coincidenza temporale, ma anche per ragioni tematiche, e, perché no, puramente formali.
L'ho fatto diverse volte in passato, e qui potete trovare pubblicate diverse di queste collezioni (l'ultima in ordine di tempo è stata "Epifanie e Cosmogonie", finita di pubblicare ai primi di Aprile di quest'anno).

In data quasi coincidente, iniziai a scrivere una nuova collezione, dedicata principalmente alla forma poetica da me preferita in assoluto, il sonetto.
Io non parto mai dalla forma, al momento in cui una composizione urge di essere scritta, lascio fluire le parole e i versi, e sono essi stessi alla fine ad organizzarsi, senza quasi un mio intervento "cosciente", nella forma che risulterà poi alla fine.
Intendiamoci, non parlo qui di "verso libero", che personalmente ritengo largamente superato. La "forma poetica" per me è l'equivalente della tecnica che consente all'artista, in ogni pratica artistica, di esprimersi: la capacità di mescere e stendere i colori sulla tela, o la maestria nel padroneggiare uno strumento musicale e la scrittura sul pentagramma, o la conoscenza approfndita di uno strumento di CGI. Il "contenuto" poi può essere astratto, informale, concettuale, d'avanguardia, ma non può prescindere da una tecnica  realizzativa o esecutiva raffinata da anni di esercizio e di lavoro, senza la quale ne risulterebbe solo un guazzabuglio informe, privo di possibilità di comunicare alcunché, alcuna emozione, a nessuno.
Ogni composizione poetica, intendo dire, per me "contiene e custodisce" la sua forma, un poco come per Michelangelo ogni blocco di marmo "conteneva e custodiva" dentro di sé la figura, la forma organica che l'artista, a suo dire, si limitava a liberare.

In questo caso invece ho lasciato che per una volta fosse la "forma" stessa a generare l'ispirazione, desideravo esplicitamente comporre un omaggio a questa nobilissima e antica forma poetica, che nella prosodia Italiana rimane forse la più importante e largamente praticata, dalle origini ai nostri giorni. Tradizionalmente il sonetto è la forma della poesia d'amore quasi per definizione. Io invece ho voluto creare un incontro tra questa forma armonica, equilbratissima, elegante e i luoghi in cui la mia memoria e la mia mente amano indugiare.

Naturalmente, caratteristica di ogni operazione del genere è che ogni singola perla della collana ha un suo ruolo preciso, una sua solidità e compiutezza in sé, ma acquista il suo vero senso e significato solo nel momento in cui si presenta nella sua interezza, come una collana appunto.

Io qui tuttavia, per motivi pratici e per non travalicare i limiti imposti dal mezzo di pubblicazione, farò come ho fatto nelle altre occasioni analoghe: pubblicherò via via due brani per volta (due, per mantenere almeno in nuce il loro aspetto collettivo), anche per darmi il tempo di passarli man mano in revisione - lavoro che come molti dei miei lettori più affezionati sanno io ritengo indispensabile prima di pubblicare alcunché - e solo alla fine affiderò a un'unica pagina l'intera collezione, ripubblicandola a parte come corpo unico.

Si tratta dunque di sonetti in forma (quasi) classica, alcuni "caudati", con schema rimico variabile, e in numero totale di 14 (e anche questo numero, come sapete bene, non è casuale, ma rinvia alla stessa forma), e un poco alla maniera inglese, senza interruzioni strofiche.
Vi anticipo qui i titoli, per darvi già da ora l'idea dell'insieme:


I - Mare
II - Lago
III - Cielo
IV - Foresta
V - Pioggia
VI - Notte
VII - Giaciglio
VIII - Vetta
IX - Città
X - Thanatos
XI - Eros
XII - Femina
XIII - Astra
XIV - Poesia

Se vorrete seguirmi in questa "passeggiata nei boschi poetici" (per parafrasare il titolo del celebre volumetto di Umberto Eco) ne sarò felice, e vi starò accanto in silenzio, sperando di cogliere di ritorno qualche vostra emozione.

Con amore, sempre

M.P.






Le solitudini e i luoghi




I
Mare


Come corre leggero il maestrale
sopra le creste piumate dell'onde,
e la amara visione mi confonde
eretta, lì, sulle labbra del mare.
Esausta di sole, come sul ponte
d'una nave esausta il nocchiero,
lo sguardo si spinge lontano, fiero
va oltre la linea dell'orizzonte
Scuoto i capelli agitati, ombrosi,
li lascio fluire fin sulle spalle,
e lascio ai piedi fluire i marosi.
Contemplo le nubi che chiamo sorelle,
ammiro i gabbiani volare da soli,
apro le ali - e miro alle stelle.


II
Lago

Ondeggia il remo, e ondeggia il battello,
ondeggia la Rocca nel proprio riflesso,
ondeggia l'airone, raccolto in sé stesso,
veleggia il pensiero a volo d'uccello.
Schiudo gli occhi e mi arrendo, adesso,
alla visione dell'acque distese
a valle, appagate, tutte comprese
nel loro sospiro lacustre, sommesso.
Una lieve foschia vela il sole
che nasce indeciso dietro le alture,
così vela il ricordo le mie parole.
Osservo il villaggio e le sue mura
di pietra e di vita vetusta, l'ardore
di questa quiete impietrita mi rassicura.


(Marzo 2016)
Marianna Piani

(Segue)
.

mercoledì 16 novembre 2016

Un fardello



Amiche care, amici,

dopo una lunghissima assenza dunque, amareggiata ma vogliosa ancora di vita, riprendo a pubblicare qui, per voi, e per me, stille della mia esistenza.
Per adesso, poiché la stanchezza è ancora infinita, lascio spazio alle nude parole, così come le avevo tracciate mesi fa (che paiono millenni a me ora), alla narrazione, e alla vostra immaginazione, senza particolari introduzioni o chiose o ripensamenti.

Per voi, dilette e care amiche, e dolcissimi amici, con amore, come sempre

M.P.




Un fardello


Corre la giovane, greve
sul campo di neve,
con sé reca un fardello
legato da un fiocco.
Il gelo attorno vince
sulla memoria, sulla storia.
La giovane piange
lacrime agre,
che sono subito ghiaccio.
Nessuno nel mondo
pare curarsi di lei,
nessuno coglie il momento
di questo dolore
così intenso
da non parere dolore
pur non giungendo
ancora al rancore.

Tutto il dolore del mondo
non è così greve
come questo fardello
che ella trascina
in mezzo alla neve.
Il fiato, ansimato
e a momenti quasi gridato,
nell'aria condensa
in piccoli brevi vapori.
Altro suono, altro rumore
non c'è, salvo
lo scroscio dei passi
e il tenue schianto
del cuore.

La foresta, il rifugio,
la promessa d'una salvezza
è lontana, è oltre per miglia,
oltre la tundra,
oltre quella distesa
di bianco motoso
e stecchiti cespi di bosso.
Ella guarda ai suoi piedi
trascorrere il suolo
confuso di pietrisco
e marcito fogliame,
e l'ombra sua vagante
che frulla come un'ala
vogliosa di prendere il volo.

Non c'è modo
di alleviare l'affanno
di quel correre che pare
sempre più vano,
non c'è modo neppure
di accordare il perdono
al danno, all'inganno,
che ha lasciato dietro di sé
dentro il suo affetto
e dentro il suo corpo
tali detriti da rendere
ogni procedere più impedito
e contorto. E non c'è modo
di abbreviare di un nulla
quel lungo, penoso,
accidentato percorso.

Alla giovane donna rimane,
svanita ogni illusione
e con essa ogni speranza,
solo la fede
nelle residue sue forze,
e l'ostinata costanza.
Ben sa che mai potrà
liberarsi del fardello
che si porta sulle spalle,
nemmeno un Dio, di certo,
di ciò potrà mai liberarla.
Lei sa solo che se reggerà,
se non cadrà sfinita,
la bocca colma di neve,
appena due passi prima
della finale salita,
allora potrà infine trovare
una sosta, lei e la sua sporta,
che nel frattempo si sarà fatta
più densa e più greve -
e più lucente -
di una stella morente.

E potrà dire,
prendendo fiato per un istante
di aver vissuto,
pienamente.


Marianna Piani
Milano, 10 Marzo 2016
.

lunedì 14 novembre 2016

La Nuit américaine



La Nuit américaine



ovvero
Miserabile fine del sogno americano



Care Amiche, amici.
Dopo una lunghissima assenza, dovuta a seri motivi di salute, ritorno nel mondo dei vivi, con poco entusiasmo devo dire, ancora incerta e frastornata, con scarse riserve d'energia, ancora tutte da ricostruire, e lo trovo cambiato. Nel peggior modo possibile. Nel peggior modo in cui avrei mai pensato di ritrovarlo.

È tutto già accaduto: in questo periodo non ho potuto accostarmi a computer o smartphone, e non ho potuto quindi seguire l'evoluzione degli eventi, che avevo lasciato con un certo ottimismo, anche se stemperato da un timore sotterraneo, una angoscia sorda e insistente, che per quanto facessi non riuscivo a ricacciare indietro, quando affiorava. Imputavo questo malessere al mio stato di salute, già traballante, e invece ora so che si trattava di una percezione lucida, una razionale premonizione, non di una paranoia, ma di un ragionamento, basato su fatti che erano davanti agli occhi di tutti, e si erano manifestati chiaramente già con la vicenda della disgraziata Brexit.

Ebbene, questo è accaduto mentre ero lontana: un individuo spregevole è stato eletto, democraticamente, legalmente, indiscutiblmente, e anche con un largo margine, al capo di quella che è considerata la prima potenza mondiale, la prima economicamente tra i Paesi Occidentali, la prima a livello mondiale per armamenti, la prima potenza nucleare, modello e leader industriale, politico, e anche culturale dell'intero mondo occidentale.
Un individuo che della propria spregevolezza non ha mai fatto mistero, anzi, ne ha fatto suo unico programma ed ideologia, non mancando alcuna occasione per rivendicare pubblicamente con clamore e orgoglio il proprio essere tale, questo, e null'altro che questo.
Una moltitudine di individui quindi sono usciti di casa, ai primi giorni di Novembre, sono sciamati ai seggi, e hanno serenamente sottoscritto il loro voto a questo stesso individuo, riconoscendo implicitamente o esplicitamente il suo messaggio, la sua immagine, le sue idee, come le loro.

Questi, detti con estrema semplicità, i fatti. Al di là di ogni analisi, di ogni sterile discussione, di ogni motivazione di fondo, di ogni errore degli avversari, di ogni tentativo di giustificazione o di recupero a una impossibile "normalità". Un individuo spregevole è da ora al vertice del potere in una Nazione di immenso peso politico, economico e militare. Nulla di meno "normale".
Ma questo in fondo è il paradosso della Democrazia. Il meccanismo, in certe condizioni storiche, si inceppa, e anzichè servire per selezionare un modello esemplare e autorevole in una certa Società per assegnagli il compito di leadership, così come era la sua funzione originale, pare rivolgersi a distillare la espressione peggiore, più ignobile, di questa stessa società. Non a caso, da sempre i nemici più giurati del sistema democratico si ingegnano in ogni modo a sfruttare i meccanismi di questo stesso sistema per raggiungere il loro obbiettivi di potere. Di solito gli "anticorpi" del sistema riescono ad arginare, isolare e neutralizzare questi tentativi. in alcune situazioni però, questi anticorpi si indeboliscono, o addirittura soccombono a quello che potrei definire per analogia un po' azzardata, come l'AIDS delle democrazie avanzate: il populismo demagogico.
Una autentica reazione autoimmune che può portare alla autodissoluzione dei tessuti politici e sociali di una democrazia.
Intendiamoci, si tratta di un virus che colpisce anche a sinistra, e con pessimi, a volte drammatici risultati. Ma è a "destra" (per semplificare utilizzo categorie politiche piuttosto stantie ormai) che trova la sua massima espressione e virulenza, richiamando i più bassi istinti delle masse, in particolare di quelle più deboli e esposte dal punto di vista culturale.

Comunque sia, i sinceri e convinti democratici, quale io mi pregio di essere, si trovano del tutto inermi in situazioni come queste: lo Spregevole Individuo infine è stato eletto, democraticamente, legalmente, in un certo senso cristallinamente, "a furor di popolo", e noi che potremmo mai dire che non smentisse la nostra stessa idea di democrazia, i nostri Princìpi primari? Dobbiamo inchinarci, a quel "popolo sovrano" e accogliere lo Spregevole Individuo come Capo Supremo del nostro ordinamento. Protestare? Far sentire la propria voce? Facciamolo pure. Ma ciò non toglie che lo Spregevole entra trionfalmente nelle Stanze del Potere, e ora dipenderà solo da lui se, come e quando la rovina potrà abbattersi su di noi. Poichè non si tratta i una "Repubblica delle banane", insisto, ma della Nazione più importante, in tutti i sensi, del mondo occidentale.
Da democratici convinti, non possiamo opporci al risultato di una elezione democratica. Oppure invece dovremmo farlo? Il "popolo", un certo popolo, ha espresso a maggioranza il proprio leader. Ma la Storia insegna che il popolo non è garanzia di giustizia, equità, ordine e - appunto - democrazia. Non sono stati propriamente meccanismi democratici a portare Mussolini e Hitler al potere, ma non vi sono dubbi che entrambi, in un modo o nell'altro, godessero di un altissimo consenso popolare. Così come molti altri autocrati e dittatori della Storia, specialmente agli inizi della loro parabola politica.
Dovremmo imbracciare le armi e cacciare lo spregevole dal Palazzo prima che costui faccia troppi danni? Mettiamo per assurdo che lo facciamo, e che ci riusciamo. E dopo? Come potremmo ripristinare un processo democratico se noi stessi lo abbiamo negato con la violenza e la prevaricazione? Ha differenza se tale prevaricazione viene esercitata per motivi che riteniamo nobili e giusti? Forse anche sì, ma quanto ci vorrebbe per ricucire il vulnus arrecato ai nostri stessi princìpi?

Dobbiamo accettare il "verdetto", non possiamo fare altro.
E prepararci per una lunga, intransigente, faticosa opposizione.

Lo spregevole intanto ride felice, noi piangiamo. Ci hanno insegnato anche a rispettare le persone, gli elettori, i cittadini, i nostri simili che hanno espresso un voto, fosse anche diametralmente opposto al nostro pensiero.
Ma davvero dobbiamo farlo, anche in questo caso estremo?
Io in tutta sincerità non mi sento di farlo. Il messaggio trasmesso è chiaro e inequivocabile, con il pregio della schiettezza che hanno in comune questi personaggi, non poteva essere frainteso, con tutto il suo contenuto di razzismo, misoginia, omofobia, xenofobia, machismo, culto della forza, della ricchezza e del potere. Chi ha votato sapeva per chi e per cosa stava votando, nella maggioranza dei casi, e votando ha sottoscritto questi contenuti. Anzi, direi che si aspetta ora dei risultati tangibili per questa specie di programma, allo stesso tempo vago e netto.
Per questo, pur nel rispetto dell dettato democratico, io non me la sento di "rispettare" le persone che hanno promosso, sostenuto e infine affermato questa candidatura.
Io disprezzo queste persone.
Chi elegge a proprio leader un individuo spregevole sulla base di convinzioni spregevoli non può avere il mio rispetto. Questo non mi può essere chiesto.

. . .

Da poco è stato l'anniversario degli attentati di Parigi.
Come scrissi in quell'occasione, il sentimento che mi ha colto per quegli avvenimenti terribili è stato dolore, sbalordimento, pietà, ma non paura, mai paura. Perché sono consapevole che proprio sulla paura delle persone fa leva il terrorismo per i propri fini (di potere, in ultima analisi, tanto per cambiare). E perché se si ha da combattere per le proprie convinzioni primarie, come Libertà e Giustizia, io sono pronta a combattere, a rischio della vita, se necessario. La paura non serve a nulla altro che a rafforzare i nemici giurati della nostra cultura.
Invece, l'esito di queste elezioni mi ha angosciato e prostrato profondamente, e in questo caso sì, confesso, provo paura.
Non solo per gli effetti ora possibili su cinquant'anni di lotte e conquiste sui Diritti Civili, non solo perché gli USA e il loro popolo ha ingranato una spettacolare retromarcia storica, ritornando idealmente agli anni 50 - ma saranno anni 50 nell'epoca di twitter, tanto più pervasivi e pericolosi quindi - non solo perché si dà una violenta frenata alla speranza di avere una società americana con meno armi in casa, meno pena di morte, più integrazione e rispetto delle minoranze, meno violenza sulle donne, meno muri ai confini.
Ma anche perché questa elezione può innescare una valanga inarrestabile, da noi, in Europa, che rischia di travolgere e distruggere cent'anni di costruzione e di pacifica convivenza, dopo il trauma di due guerre e un olocausto. Il virus è contagioso, e ne distinguiamo chiari sintomi già da prima di questi ultimi avvenimenti: già avevo citato Brexit, non a caso preso come modello di "rivoluzione" dallo stesso Spregevole Individuo di cui stiamo parlando.

Come ognuno di noi, ho il mio personale "sogno americano", che ho espresso in particolare nel corso di due viaggi importanti, il primo alcuni anni fa, e l'altro un poco più di recente.
Il primo mi ha portato a Los Angeles, California, con in borsa il sogno di farmi assumere da una delle grandi Fabbriche di Sogni che laggiù hanno base, come Dreamworks e Disney/Pixar, e con l'intenzione per niente teorica di trasferirmi lì. Non avevo talento sufficiente per conquistare un posto di lavoro in quell'ambiente - nel mio settore il massimo possibile - ma passai quattro settimane viaggiando tra California, Arizona, Utah e Nevada, lasciandomi investire da tutta la straordinaria, arcaica, misteriosa bellezza di quel Paese.
La seconda volta ho soggiornato a Redmond, per una serie di Corsi di aggiornamento, e anche in quel caso con il "miraggio" di un incarico presso una importante Università privata del uuogo.

Anche in questo caso l'incarico non è arrivato (o meglio, ho declinato io poiché non mi sentivo in grado di affrontarlo così come mi veniva richiesto), ma ho avuto modo di immergermi in questa Società Americana, in una realtà del tutto diversa ma non meno affascinante, come la zona nordoccidentale, quasi ai confini con il Canada, tra le fitte foreste e la costa oceanica, e una città così lontana dalla immagine "cinematografica" di Los Angeles, in certo suo modo quasi "europea", come Seattle.

In questi due viaggi ha trovato alimento e vigore il mio amore per questo straordinario Paese e per la sua gente, un amore nato, come per tanti europei, sugli schermi cinematografici e sulle pagine dei libri di narrazione e poesia, ma che necessitava di un riscontro "reale", e lo ha avuto. Rafforzandone, non diminuendone, il mito. Il mio personale Sogno Americano.
Che ora, come in un brutto risveglio, si infrange e si spezza, lasciandomi scossa e angosciata.
Certo ora, un Paese che ha espresso una tale Leadership, in cui milioni di individui si rispecchiano con gioia nella spregevolezza di questo loro capo, non può più rappresentare per me un, anche lontano, obbiettivo, una speranza o un progetto di vita. Anche perché mi devo impegnare qui e ora a far sì che qualcosa di simile non accada anche da noi, in Europa. E poi ora i miei sogni hanno altre mete, ormai, spero di raggiungere chi amo in Irlanda, e ripartire da lì...

Il "mio" personalissimo Sogno Americano pare dunque naufragato.
Ma, in generale, storicamente, è questa la fine del Sogno Americano, così come lo abbiamo vissuto in questi decenni?
Se è così, è, come dico nel titolo, una fine davvero miserabile. E forse definitiva.


Con profonda amarezza
Marianna Piani

Ringrazio le amiche e gli amici che mi hanno atteso in queste lunghe settimane di assenza forzata, e che mi hanno fatto giungere messaggi spesso preoccupati e dolcissimi. Non so ancora se e con che tempi riuscirò a riprendere del tutto i contatti, la mia attività di scrittura in modo continuativo, o almeno con una certa regolarità, ma cercherò, ora che ho rimesso finalmente le mani sulla tastiera, di rispondere a tutti, a ciascuno di voi personalmente, per quanto le mie forze me lo consentiranno.
Con amore, sempre
Marianna