«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

mercoledì 31 agosto 2016

Casa sola


Questo, che chiamerei un "raccontino in versi" (in quartinelle quasi libere), è nato da una lunga passeggiata tra i boschi e le colline sopra la sponda piemontese del Lago Maggiore, che è meta preferita delle mie personalissime "passeggiate nei boschi narrativi".
A un paio di decine di minuti di percorso a piedi dall'ultimo centro abitato, in gran parte in mezzo a un bosco di querce e castagni  e in dolce pendenza, all'improvviso appare una abitazione, una casa, di costruzione piuttosto recente, ben curata, attorniata da un ampio prato, un orto, un piccolo frutteto, e una radura in cui pascolano numerosi cavalli e asini, oltre a qualche mucca, e diverse arnie di api d'allevamento.
In realtà l'apparente isolamento non è così assoluto, oltre che a piedi ci si arriva facilmente in macchina, lungo una carrareccia piuttosto agevole, in sé non ci sarebbe neppure bisogno di un mezzo fuoristrada, tranne probabilmente nei mesi invernali in cui la neve, che qui cade spesso abbondante, può rendere problematico il collegamento.
Tuttavia la sensazione di una vita fuori del comune che chiunque abiti questa dimora debba trascorrere è inevitabile.
Vi sono passata spesso, nel corso delle mie lunghe passeggiate (o corse), e non ho mai visto direttamente la persona, o le persone che vi abitano. Sempre solo i numerosi animali, quieti nel loro oziare indisturbati. Soltanto una volta ho intravisto la figura di un uomo, molto da lontano, fugacemente, tanto che quella apparizione ha contribuito a aumentare, anziché diradare, il senso di mistero che la mia immaginazione ama assegnare a quel luogo: chi sarà costui, come vive, che attività svolge, e soprattutto, perché si è scelto, non da molto tempo, una sistemazione così defilata?

Per la verità sarebbe facile in fondo togliersi ogni dubbio e fantasia, basterebbe avvicinarsi alla persona e presentarsi, oppure - per evitare rischi, sono pur sempre una donna sola - anche chiedere qualche informazione al giardiniere che collabora a curare il piccolo parco di casa mia, che in zona conosce tutti e sa di tutti.
Ma, infine, perché farlo? È proprio indispensabile curiosare nella privacy (come usa dire oggi) di un estraneo? E, soprattutto, davvero voglio saperlo? Non sarebbe meglio piuttosto conservare intatta quest'aura di mistero, di questa vita così bene inserita in quel quadro naturale, lontana dalla consueta alienazione urbana?
Preferisco così, preferisco immaginare, piuttosto che sapere. E preservare così la magia, il segreto, per nulla scalfito da quella apparentemente incongrua antenna satellitare…

Amiche dilette, amici, grazie come sempre per la vostra presenza.
Vi lascio alla lettura, con amore

M.P.

(P.S.: da qualche tempo la salute e il lavoro hanno congiurato, e mi hanno costretta a diradare non poco la mia presenza in quei luoghi: per questo sono tristissima e depressa. Mi manca da morire.)




Casa sola


Ho visto l'uomo che lavorava
il denso prato davanti a quella casa
nel cuore della boscaglia,
lontana da ogni dove.

Avrei voluto chiedergli ragione
di quella cura, di quell'amore
prodigati senza risparmio
a ogni stelo, a ogni fiore.

Fossero anche steli di gramigna,
o modesti insignificanti boccioli
di radura, o fossero pure
rose di selva, o pruni ribelli.

E gli insetti che l'uomo guardava
con affetto, scevro di sospetto?
E le api che ancora oziavano
negli alveari, e le giumente

oltre il recinto, nostalgiche
di corse libere nelle selve,
che strappavano ciuffi di verzura
con distaccata eleganza?

Avrei voluto chiedere a quell'uomo
cos'era che lo tratteneva lassù,
via dal mondo, e cos'era
che gli dava il vivere così.

E cosa fosse quella natura
a mezzo tra la selva libera
e il dazio della cattività
d'essere nel mondo oggi.

Ma il gesto lieve della mano
con cui mondava dagli afidi
il verso delle foglie del roseto
rispondeva per me a ogni questione.

Mi allontanai arricchita
d'un senso ineffabile di quiete,
in pace anche con la mia greve
solitudine mentale.

Vidi ancora l'uomo un istante
in tralice mentre raccoglieva
a bracciate sterpi e legna
forse da bruciare.

E sull'angolo del tetto
più a oriente rivolta al sole
calante dell'estate, luccicava
l'argentea antenna satellitare.



Marianna Piani
Milano, 16 Gennaio 2016

sabato 27 agosto 2016

Trasognata


Amiche care, amici,

avviene, al nascere di una passione, di desiderare ardentemente qualcosa - qualcuno - che ci sembra interdetto, negato, inaccessibile. Avviene di riposare accanto alla persona che è l'oggetto del nostro desiderio, e di rimanere come paralizzate, incapaci di attuare ciò che la nostra immaginazione, al servizio dei nostri desideri come sempre, sembra suggerirci.
Sogniamo di sfiorare quel corpo assopito, di esplorarne le più segrete intimità, che ci appaiono lì, così vicine, così indifese ed esposte al nostro desiderio, ma non osiamo, perché temiamo di risvegliare quella persona dal suo sonno e che nel risveglio, sentendosi violata, ci respinga. E che ciò ponga fine non solo a una possibile o impossibile storia, ma anche alla tenera amicizia che già ci unisce.
In un amore che è ancora in incubazione, lontano dal venire alla luce, ogni gesto, ogni sguardo può rompere il delicato equilibrio che siamo riusciti a raggiungere, e precipitarci nell'incertezza, o addirittura annichilirci. Preferiremmo lasciare le cose come sono piuttosto di rischiare di perdere tutto, eppure sappiamo bene che se non facciamo un passo avanti, se non tendiamo la mano, rischiamo che tutto questo non possa mai avverarsi, lasciandoci affogare nella nostra solitudine.

Un breve quadretto, in forma di canzone, colto sul fare della notte, una notte come tante, che però mi avrebbe resa consapevole dell'essermi davvero innamorata. Ancora diverso tempo e mille angosce sarebbero trascorse prima che questo amore trovasse la sua via, quando ormai quasi ne disperavo…

Amiche dilette, amici, vi lascio alla lettura, se vorrete.

Con amore

M.P.








Trasognata


H
o sognato di percorrere con le dita
lievi come farfalle
la valle fertile del tuo dolce ventre
così, teneramente,
e risalire con la delicatezza
d'un alito di Zefiro
o di Maestrale le alture ardite
del seno tuo, vergine
come il pinnacolo d'una cattedrale,
nobile come un tempio.

Mi sono colta a desiderare
di proseguire ancora
fino a varcare l'arco del tuo collo
e ancora risalire
il riserbo tenue delle tue guance,
e osare ancora
fino a toccare l'orlo delle tue labbra
schiuse al sonno,
e lasciarti poi così, inviolata.
Come solo immaginata.

Quando infine fosse giunta l'alba
a cercare i tuoi occhi
come il violaceo cielo cerca il sole
per fuggire dalla notte,
ti cercherei ancora, in mezzo al sogno,
cercherei la tua mano
rifugiata sotto il guanciale come
una bestiola nella tana.
Attenderei quieta il giorno come
nulla mai fosse avvenuto.



Marianna Piani
Milano, 14 Gennaio 2016
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mercoledì 24 agosto 2016

La stanza d'ombra


Amiche care, amici,

in questi giorni ho dovuto subire un ennesimo ricovero, a causa dei problemi di salute che chi mi conosce e segue da un po' di tempo probabilmente ha già incontrato su queste pagine.

La "stanza d'ombra" di cui parlo in questa breve composizione - in quartine libere - è l'angusta prigione in cui la mia mente di quando in quando si ritrova, incapace di sfuggirne se non con l'aiuto di opportuni e piuttosto incisivi interventi farmacologici. E di questa prigione mentale è raffigurazione e metafora la stanzetta della casa di cura in cui in questi periodi (compreso quello appena concluso) mi confinano, che sono quasi specchio l'una dell'altra, la prigione spirituale della mente e la prigione fisica delle pareti nude e fredde della stanza.

Gli "interventi farmacologici" cui ho accennato poco sopra, non sono privi di effetti poco piacevoli: ritrovo è vero un equilibrio, ma a prezzo di alcuni giorni di massimo smarrimento, di annullamento della mia volontà, come l'immersione in un sogno ininterrotto e strano. In quei giorni rimango incapace di scrivere, o anche pensare, immersa nella viva angoscia, temendo di non poter più riprendere il dominio della mia vita e delle mie emozioni.
Poi però, per fortuna, tutto si rimette in bolla, per così dire, e in qualche modo riesco a ritornare a una vita normale, e relativamente serena.

Questa quindi è la registrazione di uno di quei periodi, così simili uno all'altro, e a quello che ho appena vissuto. Ed è la memoria di come, come sempre, è la presenza e il pensiero di chi ci ama e amiamo a renderci possibile il ritorno alla vita.

Per voi, amiche dilette e amici, per voi e per chi amate.

M.P.






La stanza d'ombra


Quella è la stanza, la stanza d'ombra
dove trascorrevo i miei giorni
di affanno, di disinganno, e quelli
dei miei smarrimenti.

Qui lasciavo scorrere il tempo
come il torrente sopra la pietra
che leviga e lucida e poi all'improvviso
spacca e frantuma.

Qui mi adagiavo sul mio giaciglio
certa che la notte che giungeva
a bussare sui vetri con circospezione
fosse l'ultima della mia esistenza.

Allora non mi scoravo, pensavo
fosse del tutto cogente, e coerente:
la mia ragione svaniva pian piano
finché la notte non fosse soggiunta.

Mi bastava allora di contemplare
le linee di luce che le persiane
tracciavano sulla parete di fronte.
E dalla parete muovevano piano

avvolgendo il muto bianco mobilio
e gli oggetti compagni di vita
di linee e capoversi, come il foglio
d'un volume istoriato narrante

della mia lotta, e della mia disfatta.
Sola, era nell'ombra la tenue traccia
della tua presenza, della tua vicinanza,
che spalancava i balconi alla speranza.


Marianna Piani
Milano, 11 Gennaio 2016
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sabato 20 agosto 2016

Il tuo cruccio


Amiche care, amici,

vi sono momenti in cui chi ci è vicino, chi amiamo, all'improvviso, senza apparente motivo, si allontana da noi, si chiude in un proprio pensiero, da cui ci sentiamo esclusi, e noi non sappiamo che fare.
Senza volerlo, senza saperlo, l'abbiamo ferita? Oppure si tratta di qualcosa dentro di lei, che la tormenta, qualcosa che è emerso dal buio del suo pensiero, e che la opprime? Ma perché allora non confida in noi, che l'amiamo, noi che faremmo qualunque cosa per sollevarla, per consolarla, perché non si apre, proprio con noi, che le stiamo al fianco trepidanti, e invece si ravvolge nel proprio pensiero come in una coperta, e ci gira le spalle?

Ci sentiamo noi ferite, allora… Ma no, amore è rispetto, lo sappiamo bene, ed è discrezione, quel rispetto e discrezione che tante volte lei ha tenuto con noi, facendo fronte alle nostre improvvise ombrosità, alle nostre mute disperazioni, così, restandoci accanto, facendoci sentire, semplicemente, la sua presenza, buona e salda e sicura, attorno a noi, come le pareti protettive di un rifugio.
Dunque, non rimane che dominare il nostro sentimento, tacere, nemmeno osare sfiorarle le spalle o i capelli con una carezza - infine, lei sa che siete lì, accanto - lasciarla riposare, proprio come ci ha chiesto, e attendere un suo cenno, quando sarà…

Dedicata a un amore vero, e condivisa con voi, amiche dilette e amici…

M.P.




Il tuo cruccio


L'arco della tua fronte ampia e conclusa
sovrasta il tuo sguardo, come il cielo
s'inarca chiaro sopra lo specchio
oscuro del lago, e dice un tuo cruccio.

Da me tuttavia lo sguardo distogli
dissimulando in stanchezza la tua
amarezza, mi dici con voce
sensibile appena: «vorrei riposare»

e ti giri sul fianco, chiudendo
col mondo, e con me che ti veglio
proprio qui, a te accanto. Contemplo
il dolce declivio delle tue anche

e il lento ondeggiare del tuo respiro
sotto le coltri, mi colgo ad ammirare
con desiderio quasi fervente
il rame lucente della tua chioma

che adorna il guanciale e tracima
a inondare le tue pallide spalle.
Sì, cara, ti lascerò riposare,
non turberò con il mio tormento

il tuo muto delicato distacco,
Se lo vorrai, in ogni momento
la mia mano è pronta a salpare
e a varcare questo mare di disincanto

per riportarti - nudo - il mio cuore.



Marianna Piani
Milano, 10 Gennaio 2016
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martedì 16 agosto 2016

Parole (per quasi un sonetto)


Amiche care, amici,

riprendo le pubblicazioni dopo una breve pausa, dovuta non a una vacanza, benché la stagione lo potrebbe far pensare, ma viceversa a un periodo di lavoro tanto intenso da lasciarmi solo poche ore per dormire, prima di riprendere all'alba del giorno dopo. Il ciclo non è terminato, ma ora ho a disposizione una brevissima sosta, per cui ne approfitto per proseguire, anche se un poco a singhiozzo, la mia presenza su queste pagine. Il lavoro, che mi coinvolge ed appassiona, è ciò che mi dà i mezzi per vivere, e quindi ha una priorità naturale. Ma la mia attività qui - del tutto libera e svincolata da ogni considerazione utilitaristica - è ciò che maggiormente mi rende felice, e non ne farei a meno per nulla al mondo.

Riprendo con una composizione in certo modo emblematica, dedicata proprio alla scrittura, o per essere più precisi, alle "parole", che della scrittura, di ogni scrittura, sono la materia viva.
Si tratta di una pura coincidenza - io per la pubblicazione seguo un rigoroso ordine temporale di "prima stesura" - ma mi piace proporre proprio ora una riflessione su questa attività che, non materialmente, ma certo spiritualmente, mi tiene in vita.
Forse una coincidenza è anche la forma quasi canonica in cui è sviluppato il componimento, quella del sonetto, anche se si tratta dell'unica concessione prosodica e metrica riconoscibile, per il resto non vi è schema rimico, e il metro è un gioco di settenari e endecasillabi, senza schema. In più si aggiunge una "coda" con una terzina e un verso finale in chiusura.

Tuttavia, come ho annotato in altre occasioni, per me la forma metrica di norma non pre-esiste alla composizione, quasi mai (eccezione sono le "collane", dove il gioco consiste proprio nel rimanere legati a una forma prefissata): è la composizione stessa a "creare" da sé e imporre la propria forma, come un torrente, un fiume, scava da sé nel terreno, nella roccia se occorre, il proprio alveo.
In questo senso è quindi (forse inconsciamente) significativo che questo piccolo attestato d'amore nei confronti della Parola (poetica) si sia presentato nella forma in assoluto più riconoscibile e più legata all'espressione amorosa in ogni epoca e in quasi tutte le culture occidentali: per l'appunto, il Sonetto...

Amiche dilette, amici, ancora grazie, come sempre, per la vostra presenza, e la vostra amicizia.
Con amore

M.P.





Parole (per quasi un sonetto)
 

Siate con me, cantate
giovani parole coniate appena,
appena spiccate dal ramo
come frutta fragrante d'estate;

impazzate, inseguite come in gioco
il vostro solo vero senso, il suono
del vostro respiro, il battito
del vostro inesauribile mutare.

Pulsate sorgenti, come vene
ai polsi, affioranti da sotto la pelle
sottile come una guaina di panna.

Inciderà quella guaina una lama
fulgente e tagliente, scaturirà
una fiumana e poi un rivolo ardente:

come nel plasma la vita, purpuree parole
sospese nel fluire del senso
inonderanno le coltri, e il respiro.

Poi nulla sarà di ciò che fu prima.
 


Marianna Piani
Nebbiuno, 31 Dicembre 2015
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sabato 6 agosto 2016

La Luce



Amiche care, amici,

in questi giorni d'agosto, sotto un sole a volte spietato, proprio la luce, abbagliante e sovrana, celebra il suo annuale trionfo.
È difficile ora perfino immaginare, nel ricordo, la pallida e incerta luce al passaggio tra Autunno e Inverno, che è stata la fonte dell'ispirazione per i versi che pubblico oggi.
Naturalmente la "luce" che è alla base di questa composizione, non è tanto un fenomeno fisico o di percezione, quanto una metafora per un significato più vasto.


Personalmente mi sono trovata un paio di volte nella mia vita di fronte a questo bivio, a questo anelito, appunto. In quei casi la "luce" non rappresenta come si può pensare una volontà di riscatto, ma piuttosto l'abbandono a un nulla cosmico, luminoso in quanto astratto dall'oscurità disperata della realtà.
Due volte ho tentato questo viaggio, e due volte qualcuno mi ha riacciuffata, già avviata, e mi ha riportata indietro.
Ora credo davvero che questa "luce" sia un'illusione, il nulla è nulla, ed è questa eventualmente la scelta che dobbiamo fare in quei momenti, tra l'emozione, l'affetto, la presenza, e l'assenza, il nulla appunto.
Per questo, nonostante tutto, sono contenta di essere stata recuperata. Non a caso chi l'ha fatto, lo ha fatto per amor mio.

La vita è fondamentalmente amore. Uno sostiene e genera l'altra. Mancando ciò, vi è il nulla.
Ma il nostro tempo, gli anni che ci sono stati assegnati - anzi, affidati - ci sono stati dati come una opportunità di ricerca, quanto meno. La vita è questa ricerca. Tentare di sfuggirne, alla fine, è un delitto di orgoglio, o peggio, di presunzione. Non è coraggio di certo, è una viltà. Una imperdonabile viltà, e un affronto a chi la vita l'ha davvero minacciata da malattia, odio, violenza, ingiustizia.

Per voi, amiche dilette e amici, grazie per la vostra presenza, come sempre, con amore.

M.P.






Alla Luce


Anelava alla luce.
Quando sprofondava l'inverno
i viali alberati in un deliquio
di ossa e di rami protesi
a implorare salvezza, ma invano,
e l'ombra colava in rivoli densi
cancellando ogni presenza
di vita, umana o animale,
come una lava letale -
ella anelava alla luce.

Quando anche il mare
il mobile inafferrabile fuggente mare
si rapprendeva come sangue
in una rugosa crosta di pece
vetrificata, e ciechi venti
e perdute tramontane
gridavano la loro ambascia,
e bianchi frangenti deflagravano
sulle scogliere come crisantemi
lasciati a morire in onore dei morti.

Quando le strade, i palazzi,
le case che custodiscono
volti e corpi e speranze e dolori
ammutolivano senza livore
altro che fosse quello
delle lampade al sodio
dei crocevia, e una imperturbabile
oscurità copriva pietosa
ogni affanno, ogni cura,
ogni inconsolabile lutto.

Allora, così, con innocenza,
con strenua purezza,
con chiarezza di mente
e anima lieve, cosciente
di essere al valico ormai
tra la volontà e l'abbandono,
tra la quiete e l'affanno,
tra la costanza e il divenire,
tra il limite umano e l'infinito,
ella anelava alla fine di tutto:

ella anelava alla luce.




Marianna Piani
Nebbiuno, 29 Dicembre 2015
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mercoledì 3 agosto 2016

Frammenti del Commiato di un Condottiero alla sua Regina



Amiche care, amici,

non so come definire questa composizione, un poco particolare già dal titolo, e che forse vuole richiamare un clima epico, del tutto avulso dal Tempo e dalla Storia.
Posso solo dire che per ogni amante, di certo, la propria donna è la Regina, a cui dedicare i propri atti, il proprio eroismo, la propria stessa vita.
In compenso - a volte - soltanto di un benevolo sguardo, che basta da solo a colmare di senso un'intera vita, spesa alla ricerca del Bene, e della Bellezza, che è in fondo lo stesso..

Dedicato a tutte le Regine della mia vita, e a voi, amiche dilette e amici, con infinito amore.

M.P.




Frammenti del Commiato di un Condottiero alla sua Regina


 

Genuflesso, al salpare,
baciai l'orlo del tuo manto
mia giovane Regina, giurando
sulla Croce e sul mio Onore
fedeltà in eterno al tuo Nome
e alla tua vergine bellezza.

Partii, senza indugiare, quando l'alba
non era ancora nata, lasciai
questa mia terra sazia, il mio orto
amorevolmente curato,
il roseto e il mio giardino
senza sapere il mio destino.

Attraversai Oceani
e Mari agitati, determinati
a ricacciarmi indietro. Ho veduto
fiammeggiare i vulcani
e le barriere coralline, cetacei
immensi come navi

scavalcare soffiando onde
che parevano montagne,
dolcissime Sirene cantare
e i loro seni bianchi come gigli
ammaliare i più rudi naviganti,
le burrasche infuriare

e divellere il sartiame, abbattendo
l'alberatura come un mazzetto
di festuche, vidi vascelli
che forse mai sono esistiti
incrociare al largo, alla fine
delle terre, al cospetto

degli dei che governano gli elementi...
Tutto questo ho fatto, mia Regina,
e altro ancora, e più farò
in nome del tuo caro Nome,
solo per amore del tuo sguardo
che indugia benevolo sul mio petto,

scoprendone il cuore.



Marianna Piani
Trieste/Milano Dicembre 2015
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