«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

sabato 30 gennaio 2016

Sette Strofe Saffiche per S.B.


Amiche care, amici,

Scrissi questa cosetta durante un mio viaggio di lavoro in Irlanda, quest'estate.
Si tratta di sette strofe in forma "saffica" (la versione sillabica dell'originale quantitativo latino, tre endecasillabi e un quinario - qui con qualche licenza di "verso libero", specie nelle rime) e parlano d'amore, apertamente, scopertamente d'amore a modo mio, dedicate a colei che è stata per un indimenticabile anche se breve periodo la mia compagna.

"Saffiche" di nome e di fatto queste strofe, dunque, se volete.

Le pubblico oggi con un certo anticipo sul normale "ruolino di marcia", se me lo consentite, come un mio contributo volutamente polemico e - per chi tale lo pensasse - provocatorio rispetto al sedicente "Familiy Day" andato oggi (29 Gennaio, 2016) in scena a Roma.

L'amore tra due persone, quando sincero e profondo, per me non ha confini di genere o di sesso.

Il mio amore per un uomo, che vissi per quace anno nel passato, non fu diverso dal punto di vista affettivo ed emotivo rispetto a quello che provo adesso per una donna - ora che ho finalmente e non senza costi personali chiarito il mio ruolo nella giostra della vita - e a quello che questa donna prova per me. Ora ho trovato una realizzazione e un equilibrio anche dal punto di vista sessuale - e sensuale - ma conservo tuttavia un profondo affetto e gratitudine per il ragazzo che mi è stato accanto in anni per me difficili, e che ancora adesso frequento, forse con ancora maggiore libertà e felicità.
Mai mi sono sentita libera di esprimere la mia amicizia profonda con amici maschi come ora, e mai prima ho provato per una persona la travolgente attrazione, su tutti i piani, mentale, fisico, d'anima, come la provo ora per la compagna che amo, che ho amato o che amerò.

Sono felice che in Italia lo status di chi ama un'altra persona inizi finalmente ad essere reso potenzialmente indifferente alle diverse combinazioni possibili (ed esistenti) tra i sessi, e che ciò avvenga anche a livello normativo e legislativo.
Pochi paiono accorgersi che il riconoscimento di certi diritti implica l'assunzione di certe responsabilità, di certi doveri.
Ora ad esempio può capitare che in certi ospedali, in caso di malattia o incidente, mi sia interdetto di vedere o incontrare la mia compagna, poiché lei ed io non facciamo parte di un nucleo familiare "riconosciuto".
Domani di contro, spero, io non solo avrò il diritto, ma anche il dovere, non solo morale, ma effettivo, di prendermi cura della mia compagna. E lei di me.
La questione è tutta qui. Solo qui.

Inutile insistere e ripetere che per noi non si tratta di negare certi diritti a chi già ce l'ha, e neppure che l'assunzione di questi stessi diritti debba diventare obbligatoria per noi omosessuali, o per chiunque, anche per le coppie etero che vogliano ad esempio, per ragioni loro, rimanere "conviventi" e non "regolarizzate". Ciò che importa, e questa è una vittoria per tutti, non solo per gli omosessuali, è che ci siano delle leggi e delle norme di tutela e di diritto che tutti, indipendentemente dal sesso, dalla religione e dal colore della pelle, possano e debbano effettivamente seguire.


Non vedo come ciò possa in alcun modo "minare" la nostra società o ledere i diritti acquisiti dalla generalità della popolazione, vedo piuttosto un chiaro avanzamento nella direzione di una evoluzione sociale di democrazia, giustizia e libertà.
Non a caso i luoghi in cui questi diritti e libertà sono negati, e spesso attivamente e violentemente perseguitati, sono proprio quei regimi teocratici, ciechi e violenti di cui proprio molti dei più accesi sostenitori dei "Family Day" di casa nostra temono maggiormente il "contagio". A quanto pare, sono già ben contagiati...


Agli amici che in buona fede si sentono parte di questo movimento (intendo non in cattiva fede, come certi politicanti che ne vogliono cavalcare la groppa, spesso da parte loro pluridivorziati o con situazioni personali perlomeno dubbie) dirò senza paura di apparire contraddittoria che comprendo e in parte condivido le preoccupazioni per il lato debole di tutta la questione, l'infanzia.
Io sono fisicamente sterile, e dunque la mia "famiglia" sarebbe destinata a rimanere sterile anche se sposassi cento uomini di fila, tuttavia sono estremamente cauta, nella situazione sociale attuale, con l'idea di coinvolgere un minore nella mia vita, sia in adozione sia che venisse da una relazione precedente mia o del mio partner. Questo non solo per motivo della mia omosessualità, ancora ben lontana dall'essere accettata, per non dire riconosciuta, ma anche per altri motivi di fragilità personale, di incertezza economica, di mia sofferenza psichica,
E questo è tutto, ma solo per per quanto mi riguarda personalmente, e questo anche se il mio desiderio di maternità, credetemi, è immenso. Davvero immenso!

Tuttavia non mi sento di negare ad altri la possibilità almeno in prospettiva di confrontarsi con la propria coscienza e ragione e di aspirare a questo raggiungimento, fondamentale per ogni essere umano.
La tutela del minore, dell'indifeso, di chi non prende ma subisce le nostre scelte è necessaria e indispensabile, ma questo vale per chiunque, anche per le coppie "regolari": il passo di decidere di generare ed allevare un figlio o figlia non è e non deve essere mai un gioco, e deve essere valutato in prospettiva focalizzata su questa creatura ed esclusivamente per lei, non per rispondere a un proprio egoistico bisogno, qualunque esso sia.

Per cui, amici che siete scesi in piazza (fisicamente o virtualmente) in nome della "Famiglia", vi prego, non lasciatevi irretire da individui che hanno interesse a utilizzare le vostre coscienze per loro fini, qualunque essi siano, cercate di assumere anche un altro punto di vista, più generale, meno chiuso in sé stesso.
Vedrete come questa timida proposta di legge, se portata avanti in buona fede anche con il vostro appoggio e apporto potrà costituire una conquista effettiva per tutti, anche per voi.

Mi fermo qui: vi lascio, se vorrete, alla lettura di questi versi, amiche dilette e amici cari, immaginati e scritti per amore, e più che mai con amore.

M.P.




(Egon Schiele - 1915)





Sette Strofe Saffiche per S.B.

 

Vasta, luminosa, vergine cara,
creatura mia che giungesti improvvisa
come un soffio di vento di primavera:
io ti volli mia sposa.

Ti vidi scendere come una dea
dalla motocicletta argentata,
scuotesti la chioma dall'elmo come
una rosa infuocata.

E fu subito incendio quel tuo sguardo
scagliato contro il mio come una sfida,
le tue labbra furono la promessa,
la tua voce mia guida.

Fosti allora come il sole è la vita,
come l'acqua è per una piccola pianta
inaridita, come è l'aria libera
per la mia fiamma affranta.

Bevvi a gran sorsi il tuo sudore e il succo
del tuo ardore più segreto e profondo,
ebbra al sapore delle tue carni
e al tuo dolce abbandono.

"Sempre sarà", dissi, "sempre sarà"
ripetemmo, abbandonate alle braccia
l'una dell'altra, imbevute di vita,
"finché vita ci piaccia".

Così furono le candide nozze
che ci confusero spirito e cuore,
virginali carezze come ogni unione
carnale d'amore.



Marianna Piani
Bearhaven, Ireland, 16 Luglio 2015

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mercoledì 27 gennaio 2016

Geometria del dolore


Amiche care, amici,
in questa "Giornata Particolare" (per parafrasare il meraviglioso film del grande Ettore Scola, recentissimamente scomparso) vorrei partecipare, se me lo consentite, con una mia memoria personale, minima, intima, ma intensa.

Alcuni anni fa mi trovavo a Monaco di Baviera per lavoro, vi abitavo ormai da diversi mesi, e decisi un freddo week end di gennaio di chiedere a una mia amica del luogo, non ebrea, di condurmi a visitare il vicino Campo di Dachau.
Era da tempo che lo volevo fare, secondo me si tratta di un "pellegrinaggio" d'obbligo per qualunque cittadino europeo, almeno una volta nella vita - intendo quello di visitare un Campo di Sterminio qualsiasi dei tanti ancora visitabili in giro per l'Europa, non Dachau in particolare. E quella era la prima occasione che mi si presentava. Pur essendo nata e cresciuta a Trieste, tra l'altro, non avevo mai avuto modo di visitare il triste comprensorio di San Sabba, che come si sa è l'unico Campo che fu operativo in territorio italiano.

Dachau, è da dire, non è Auschwitz, non emana quella sinistra tremenda aura di morte già solo dal nome. Se non sbaglio questo paesino bavarese ha ospitato nel suo territorio il primo Campo del genere in assoluto, che fu avviato inizialmente più per il controllo/repressione della dissidenza e diversità (comunisti, omosessuali, testimoni di Geova, malati psichici, e ovviamente "anche" ebrei) che per lo sterminio vero e proprio, pianificato e più puramente razziale, che sarebbe venuto "ufficialmente" più tardi.
Tuttavia, accuratamente allestiti (ed è proprio su questa "accuratezza" che parlo nella mia piccola composizione, come vedrete) e con maniaca precisione collocati a un lato del Campo c'erano - ci sono tutt'ora per chi volesse visitarlo - gli impianti "full optional" delle camere a gas e i forni crematori annessi. Impianti che non furono mai realmente utilizzati, con grande disappunto (documentano carte e comunicazioni ritrovate ed esposte nel piccolo museo annesso) dei responsabili e reggitori amministrativi e militari del Campo, che si sentivano immeritatamente degradati a "serie B" tra i campi di sterminio, dopo il glorioso primato vantato negli anni precedenti.
Ciò non impedì ovviamente che tra quei reticolati, nella placida e quieta e peraltro adorabile Baviera, venissero perpetrate torture indicibili (tutte accuratamente e puntigliosamente documentate dagli stessi carnefici, evidentemente orgogliosi della loro efficienza), e che i disgraziati "detenuti" fossero destinati comunque a morte indegna e orribile per stenti, fatica, fame e malattie. Per non parlare dei numerosi terrificanti "esperimenti scientifici" compiuti e anch'essi accuratamente registrati e documentati sulla pelle di diversi poveri corpi vivi e in questo modo portati a morte, come cavie di laboratorio.


In realtà ciò che mi si impresse indelebilmente nella memoria non fu tanto l'emozione - certo annichilente - di camminare in un santuario della morte, dove migliaia di innocenti sacrificarono la loro vita senza neppure sapere perché, quanto una sensazione che solo visitando ora i campi di persona si può davvero percepire: la surreale volontà di "ordine, pulizia ed efficienza", la "simmetrica geometria" di cui tento di parlare nella mia composizione con parole certo inadeguatissime, che è il segno ancora tangibile di come questi avvenimenti non furono generati dalla follia paranoica di un uomo o di un ristretto gruppo di criminali, come si tende a voler credere per amor del cielo e di noi stessi, ma da menti e competenze, lavoro, progettazione accurata, misurazioni, ingegnerie, calcoli precisi, complessa e puntigliosa burocrazia e volontà perfino di primeggiare nello schifoso compito di un numero indefinito ma vasto e indifferenziato di persone come noi, normali "cittadini", di cultura e con studi alle spalle, con casa, famiglia, bambini, amici, spesso cristiani, anche osservanti. Tutti volonterosi e NON INCONSAPEVOLI carnefici in nome di questa folle e surreale ideologia di morte e sopraffazione.
Questo è ciò che mi agghiaccia, da sempre. Questo è ciò che segnala come una follia del genere sia sempre nel fondo del nostro animo, dell'animale-massa di cui noi siamo una cellula integrante. Che tutto questo, magari con altre intensità, altri nomi, sotto altri ideologie o religioni, può riprodursi ovunque, in qualsiasi momento.
Perché si tratta di un mostro che cova DENTRO ciascuno di noi, e non una entità proveniente dall'esterno, un alieno che piomba dal nulla a distruggere l'Umanità come nella Guerra dei Mondi di H.G. Wells.
Il seme della nostra (auto)distruzione è dentro di noi, anzi, è parte di noi. Compito dell'Umanità da sempre, e ora - dopo la Shoah - più che mai è rendersene conto, innanzi tutto, e poi di imbrigliare il mostro e neutralizzarlo. Un lavoro complesso, duro, e MAI concluso.

A questo serve a mio avviso, nel suo piccolissimo e simbolico contributo, anche questa "giornata particolare", al di là dei rituali magari consolatori o delle stanche liturgie.
Qualcuno vedo che scrive o chiede qui e là qualcosa come: "nulla in contrario per la GDM, per quello che mi riguarda, MA quando una giornata in memoria dei tanti eccidi e stermini TUTT'ORA in atto in varie parti del mondo?"
Caro amico, o amica, non hai capito: la "giornata" di cui parli richiama alla memoria sì QUEL genocidio, che come tale ci auguriamo non si presenterà mai più nella Storia, ma rappresenta il monito fortissimo e l'allarme PROPRIO per ciò che avviene ora o può avvenire ancora, ovunque il mostro di cui parlo riesca a spezzare le catene che lo imprigionano nella più profonda segreta della Ragione Umana, ed emerga allo scoperto.

Amiche dilette, amici cari, vi lascio alla lettura, se lo vorrete, ricordando sempre che il primo e più decisivo antidoto contro queste pericolose tossine è sempre, come sempre, l'amore.

M.P.















Geometria del dolore


Il viaggio fu breve,
piuttosto spiccio, su una linda
strada con l'asfalto da poco steso
in mezzo a piccole boscaglie
e villaggi del tutto acquietati.

Solo il cielo era partecipe,
a modo suo,
del mio intimo disagio:
grigio e diaccio, greve
come una coperta di metallo,

che mi schiacciava.
La mia compagna conduceva
senza dir nulla  la vettura, e io
per qualche ragione provavo
un sottile sordo mal di capo.

Pungeva il freddo, ma
non c'era neve; l'aria, il vento,
l'intera atmosfera era immota,
come in attesa. Nulla:
nulla segnava ciò che ci attendeva.

Ciò che vidi, per primo, inatteso,
non fu l'orrore, non fu il marchio
dell'agonia, non fu
il grido del dolore versato
a fiumane su quei selciati.

Fu un ciuffo d'erba,
un singolare sbuffo verde chiaro
aggrappato con ogni forza
a una crepa nel gradino grigio
e freddo dell'ingresso.

E poi, più avanti,
non fu il sentore, l'odore
dell'umana dissoluzione
che mi prese alla gola,
come una morsa.

Furono quei viali,
quegli edifici ora deserti e muti,
quei piazzali, quei percorsi
rettangolari, quelle reti
rilucenti come squame.

Fu l'inumana simmetria.
Fu quell'ordine sereno
sovrapposto all'atroce.
Fu la geometria feroce,
fu l'artefatto assurdo della morte.



Marianna Piani
Dachau, Gennaio 2004
Milano, 27 Gennaio 2016
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sabato 23 gennaio 2016

Abitante di una Cometa



Amiche care, amici,

librarsi senza peso è il segno distintivo della scrittura, di ogni scrittura detta "creativa". Quella poetica in particolare.

Retrospettivamente, solo ora nel rivisitarla per la mia consueta revisione "dopo quarantena", mi sono resa conto che questa composizione nata tutta attorno a un'unica aerea metafora, fin dal titolo è un indiretto - e inconscio - omaggio a colui che ritengo forse il maggiore scrittore italiano dello scorso secolo, Italo Calvino.
Da qualche anno ormai sto "lavorando" attorno alle sue "Lezioni Americane",  senza venirne fuori ancora, per la verità. Queste celebri annotazioni - tutt'altro che accademiche e vive tutt'ora - partono proprio, come sapete, dal concetto di "leggerezza".

È un riferimento puramente incidentale dunque, ma ben venga. Le vie della scrittura sono infinite, viene da dire. O forse, anzi certamente, le "lezioni" dei grandi si depositano nel fondo della nostra anima, senza che neppure che ne rendiamo conto, e poi emergono spontaneamente, a volte, come in questo caso, riconoscibilissime.

Amiche dilette, amici, vi lascio alla lettura, se lo vorrete, di questa mia cosetta che parla di leggerezza, volo, cosmo e vita, scritta e dedicata a voi - lettori - come sempre con amore.


M.P.






Abitante di una cometa

Senza peso, avrei voluto stare
senza premere nemmeno un grammo
sul suolo di questo astro di cristallo
cenere e detriti, che mi trascina
attorno al cosmo a sfiorare
il crudo sole per poi perdermi
nella banchisa senza luce
ai confini estremi della Galassia.

Visito gli astri, in questa giostra
senza fine che prende secoli, millenni
a ogni giro, da quelli densi e grevi
a quelli rarefatti come morte
nebulose, fino a quelli così remoti tanto
da dubitarne l'esistenza, da quelli
inabitati a quelli densamente
popolati; o roventi, o raggelati.

Svola e si scioglie la mia chioma
come quella di quest'astro, lunga
da raccogliere una fantasmagoria
di stelle e di pianeti, come diademi,
e la mia veste si dipana
in uno strascico di lucente seta,
come un abito nuziale, stendardo
di una purezza invitta.

È grande il peso dell'angoscia
che ho cumulato in questi anni,
in millenni di perpetua migrazione,

senza direzione, destinata
a chiudersi sempre nel ritorno
perpetuo lungo l'orbita di questa ellissi
senza scampo, dal Sole al nulla,
dalla vita, al vuoto immenso.

Oh, come vorrei star senza peso
sopra quest'astro, sfiorarlo appena
come una sirena approdata sulla rena.
Ma questo è quanto in questo tempo
ho appreso di quel che sia la vita -
quella che una illusa umanità
venera o svilisce: nient'altro
che una rara improbabile anomalia.



Marianna Piani
Milano, 18 Giugno 2015
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mercoledì 20 gennaio 2016

Imperdonabili



Amiche care, amici

io credo che ogni amore, ogni amore vero, non importa il genere, né quanto sia approvato o riprovevole socialmente, non importa se "regolare" o "irregolare", se etero o omosessuale, se coniugale o extraconiugale, è per sua natura scandaloso per il mondo, "imperdonabile".
Non per nulla le religioni (e altri tipi di autorità), praticamente tutte, in ogni epoca, in ogni nazione, hanno sempre cercato in ogni modo di regolamentare, imbrigliare, vietare, impedire, sacralizzare, maledire, colpevolizzare, svalutare il libero rapporto d'amore tra le persone.
Ovviamente parlo di "atto d'amore libero tra persone", non di violenza, sopraffazione, violazione, degenerazione in nome del sesso, che ogni ordinamento sociale degno di questo nome deve (dovrebbe) perseguire con ogni fermezza. E parlo d'amore, non di sesso, che dell'amore è solo l'ultima espressione fisiologica, come della parola, dell'affabulazione, lo è il movimento della lingua sul palato e la saliva che l'umidifica e feconda di significato i suoni generati dalle corde vocali.

L'atto dell'amore, la passione specialmente, il sentimento aperto, indifeso, sono un atto di libertà individuale assoluto e incoercibile, e infatti è sopravvissuto fino a oggi praticamente indenne a ogni tentativo - per quanto oppressivo e violento fosse - di schiacciarne il valore dirompente, la tensione rivoluzionaria. Per due persone in amore tutto diventa possibile, anche i comportamenti considerati normalmente più stupidi, folli, gratuiti, disperati. Tutto, non solo il ventre della donna, ma l'intero tessuto sociale e di pensiero ne viene fecondato:
l'amore è il seme del mutamento, il propellente della nostra esistenza, e di quella di ogni umana comunità.

Condivido con voi, amiche dilette e amici, questi pensieri e questi versi che ne sono generati, con amore, appunto...

M.P.






Imperdonabili



Mi vesto, tesoro caro, e arrivo.
Attendimi un istante che io sia,
bella come mi vuoi sempre,
al tuo fianco. Attendi, ora, guarda.

Una semplice gonna, a larghe pieghe,
non corta, ma generosa a scoprire
le gambe nude , una camicia bianca
di seta, che ti strappi un sorriso

per la dolcezza che lascia trasparire,
quasi inesistente, di là dal pizzo -
candida trina che adorna il petto -
di cui adorerai la spallina fina

che mi scavalca l'omero lucente.
Quell'omero come una succosa mela

che tu adori addentare di soppiatto
proprio quando siamo tra la gente.

Ho raccolto i capelli, senza ostentare,
con un semplice fiocco a formare
quella coda da ragazzina, che so
ti fa sognare, di tenerezza e voglia.

Aspettami un altro istante, vita mia,
lascia che accenda ancora le mie labbra
di quel rosso che tu vuoi di fuoco
da baciare non appena t'è concesso.

E quando finalmente io ti dirò
guardandoti ferma negli occhi:
"Andiamo, ti appartengo, adesso."
Tu non esitare, nemmeno un fiato.

Afferrami le mani, baciale tutte
col fuoco che sai dare ai tuoi gesti
d'amore quando l'amore prende fuoco,
e portami via, lontano, laddove

potremo nutrirci della nostra vita
e nulla altro, dove mi potrai dire
parole che da sole suoneranno
scandalose a Dio e al mondo,

tanto quanto scandalosi sono
a quel Dio e a questo mondo
il nostri candidi liberi innocenti
voluttuosi imperdonabili amori.



Marianna Piani
Milano, 9 Giugno 2015
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sabato 16 gennaio 2016

Sulla passione e l'inganno



Amiche care, amici,

càpita di innamorarsi senza speranza.
E càpita che l'oggetto di questo nostro sentimento, spesso da noi accuratamente celato e inespresso, lusingato dal riverbero del nostro amore, così ingenuo, scoperto, indifeso, si lasci trascinare dalla nostra stessa attrazione, fascinato dall'immagine dorata di sé stesso che scorge nei nostri occhi, e ci conceda un'illusione. E a volte anche ben più di un'illusione.
Salvo poi rendersi conto dell'errore, e tirarsi frettolosamente indietro, abbandonandoci, senza una spiegazione plausibile.

Tra i molti modi di soffrire per amore, questo è uno dei più sconsolanti, poiché quando una illusione pare potersi tradurre in realtà cadono tutte le nostre difese, e l'urto della delusione poi è assai più doloroso, devastante.
A ragazze e donne come me, in più, capita di incontrare persone che (senza dirlo, forse perfino senza saperlo) vogliono "provare l'ebbrezza" con noi di un amore "diverso", e consapevolmente ci seducono, magari per un'ora di sesso, e poi fuggono lasciandoci così, affrante, svuotate, colpevoli.

L'inganno, amiche mie dilette e amici, è figlio della passione. La passione è cieca, ingovernabile, ed è aperta e indifesa di fronte al più patente inganno…

Vi lascio alla lettura - se vorrete - di questa composizione, scopertamente d'amore.

Più che mai, vostra


M.P.




Sulla passione e l'inganno


L'inganno, il tuo inganno,
malvagia, m'ha reso cieca,
abbacinata, incapace a tentoni
di ritrovare la mia ragione.

Tu, creatura senza uguale,
che scendesti dal tuo cielo solamente
per illudere i miei sensi e fascinarli
con i sortilegi della tua bellezza.

Tu mi fosti accanto, per la prima,
quand'io ancora ignoravo
la tua esistenza: innocente,
mi porgesti la tua mano.

Tu, proprio tu, la mia Vita,
m'ingannasti, con la promessa
di una lunghissima stagione
di carnali rose e di eteree viole.

E io, proprio io, volli farmi raggirare,
volli avere fede in una dea bianca
risplendente, che mi chiamava
con quella sua voce che era prato,

che era cielo, che era lago,
che era vento, che era giaciglio,
che m'attirava a sé, alle sue labbra,
con la promessa d'annegarmi

nei suoi cocenti inondanti baci.
Come feci io, perdio, proprio io,
come feci a crederti sincera,
a pensarti, e vederti, così pura?

M'avviluppavi tu, cara compagna,
nella tua rete, come una ragna,
e io mi facevo una farfalla, dalla brama
di farmi avvelenare, da te soltanto.

E dopo ciò morire, divorata
non so più se dalla mia smania,
o dalla tua voracità impaziente,
ma del tutto, finalmente, appagata.

Tu m'attirasti, dunque, soltanto
per assaporare il gusto aspro
del potere sconfinato del tuo sesso
sopra il mio cuore, del tuo corpo

sopra la mia anima disarmata?
Poi a un tratto te ne andasti, dicendo
che l'amore di quella sorta, ahimè,
semplicemente, non era più per te.

Lasciando di me soltanto
macerie informi, frammenti sparsi,
e il vuoto senza più illusione:
una passione così per me non è,

non è amare - è pena capitale.



Marianna Piani
Milano, 12 Giugno 2015

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mercoledì 13 gennaio 2016

A un amico, poeta



Amiche care, amici

questa composizione, una sestina libera in tono cantabile e leggero, la scrissi in occasione del compleanno di un amico caro che - come me - pratica la scrittura in versi, e un po' come me lo fa al di fuori di schemi e pregiudizi accademici e letterari. A differenza di me invece, che sono e voglio rimanere una dilettante, ha pubblicato alcune raccolte, e per questo posso permettermi di chiamarlo "Poeta", un titolo che tengo di solito molto riservato con i viventi, vicini o lontani, scrittori noti o meno noti. La sottoscritta per prima, ovviamente.

Il "poeta" si definisce colui/colei che scrive "poesia", e una poesia è tale solo nel momento in cui una larga comunità di lettori la accetta come tale e ne riconosce il valore, nella gamma consentita a ogni valutazione in campo artistico, dal mediocre, all'eccellente, fino al - cosa rarissima - sublime.
La pubblicazione è naturalmente il primo requisito (parlo di libri veri, intendiamoci, non di blog o e-book), ma in questo caso non solo il fatto di aver pubblicato - che in sé non vorrebbe dire nulla in realtà su questo piano - ma in primo luogo la qualità della sua scrittura secondo me consente di assegnargli questo titolo.

Anche questa, come la precedente, avrebbe dovuto rimanere una comunicazione privata, e infatti, se notate la data di composizione, è da un pezzo che la tengo prigioniera nel cassetto. Tuttavia anche in questa, nel rileggerla finalmente con calma e con la obiettività critica che mi è possibile tenere nei riguardi di un lavoro da me eseguito, mi sembra di percepire qualcosa di interessante anche al di fuori della sfera privata. In fondo è un poco una mia piccola "dichiarazione d'intenti" sul piano della scrittura in versi. Il "Poeta" di cui parlo già nel titolo non è (solo) questo mio amico in particolare, ma in generale la figura del Poeta come la intendo io, quella cui idealmente mi piace pensare di propendere, almeno come ipotesi di rotta nella mia ricerca: quella che io definisco il Poeta illetterato…

Se avrete la bontà di attardarvi nella lettura ii queste stanze potrete comprendere meglio ciò che intendo dire.

A voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, con amore


M.P.






A un amico, poeta


Avrei scritto, a questo amico mio caro,
del prato, e del declivio punteggiato
di viole su cui ruzzavo inquieta
quand'ero una cosetta tutta gonna
a pieghine, calzini arrotolati
alle caviglie, ginocchia sbucciate.

Avrei scritto, con tenerezza, di quando
con i capelli a coda di puledra
m'impigliavo nei pruni che esploravo
in cerca di funghi e di quei lamponi
che avevano giusto il rubino turgore
delle mie labbra, vergini ancora.

Avrei scritto, all'amico, di quando mi levavo
per vedere l'alba colorare di pesca
le guance del cielo, e la brezza danzare
con le festuche e le gramigne in cortile,
mentre le tortore con ostentata
compostezza si disputavano l'arena.

Gli avrei scritto dell'aria di cristallo
che respiravo a larghe boccate
nel rampicare a perdifiato la collina
avida di sbirciare dall'altro lato,
mentre lui ch'era allora nella sua trentina
esponeva al vaglio il suo destino.

Gli avrei scritto di fiori, di specchi,
di alghe marine, di voli di api,
di cime inviolate e della loro purezza,
di quei gerani sui balconi, fioriti
come spumeggianti cascate rosso sangue,
ciò che teneva per mano la mia fanciullezza.

Il letterato di certo avrebbe sbuffato,
e arricciato quel suo naso camuso
un po' schiacciato dai troppi anni di studio
e disincanto. Mi avrebbe imputata
questa troppo facile vena, questo
indulgere banale nella memoria.

Quando invece la vita è uno strale
dalla cuspide intinta in curaro amaro,
una volta scagliato trafigge gli anni:
quale memoria ci è di salvezza,
s'è destinata a perire insieme al mortale
che la custodisce nella sua teca?

Al poeta tutto ciò non importa,
al poeta che monta di guardia
a prora della sua goletta,
che fila a vele spiegate su rotte
mai tracciate, verso incerti approdi:
al poeta non cale, la letteratura.

Ciò che conta è navigare, sentire
in viso la cruda frusta del mare,
seguire il gabbiano che si smarrisce
nelle nubi di schiuma all'orizzonte,
ascoltare in rapimento tra le onde
la canzone di qualche disperata

solitaria sirena: quel che conta
per il poeta è essere tale.



Marianna Piani
Milano, 21 Marzo 2015

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sabato 9 gennaio 2016

Confini del Sole



Amiche care, amici,

questo sonetto quasi canonico lo scrissi - piuttosto di getto - all'indirizzo di un "amico lontano", e perciò lo avevo destinato a una comunicazione privata, che non prevedeva pubblicazione.
Tuttavia, rileggendolo ora (ho ricevuto di recente care parole da questo amico dopo un lungo periodo di distacco) lo ho trovato piuttosto ispirato e sincero (anche se non starebbe a me dirlo, ma pur bisogna che eserciti un certo spirito critico al momento di proporvi qualcosa che sia degno del vostro ascolto) per cui ora lo condivido con voi, senza ulteriori commenti, confidando che il destinatario primo di questo pensiero non me ne abbia.


Come ho sempre detto, ogni composizione, piccola o grande, prende vita soltanto nella misura in cui raggiunge i suoi possibili lettori, e credo che questa cosetta meriti una sua vita libera, anche al di fuori dei confini privati dell'affetto amicale che l'ha generata.

A voi, amiche dilette e amici, e ovviamente all'Amico Lontano, con tutto il cuore, con amore.

M.P.







Confini del Sole


Quel che mi piace da sempre è sostare
alle radici del sogno, sul bordo
del giorno, sulla battigia d'un mare
che forse non altro è che un ricordo,

o un inganno, o un patetico sfondo
di tela, o di cartapesta: a guardare
un orizzonte che non è più del mondo;
a pensare che là vi sia chi amare

per quanto ci ama, pur tanto lontano,
così innocente, così alieno, solo
illuminato da pure parole.

Che dire allora di quell'alto gabbiano
perduto nel suo ineffabile volo
libero, verso i confini del sole?




Marianna Piani
Milano, 12 Giugno 2015
(A un Amico Lontano)



mercoledì 6 gennaio 2016

Ramaglie



Amiche care, amici,

una scrittura astratta, informale?
Non è nelle mie corde. Io sono una "figurativa" (nel bene e nel male), sia nel mio lavoro sull'immagine, che nel mio impegno e diletto nella scrittura.
Eppure queste ombre di rami proiettate su un muro antico un poco si avvicinano ad una immagine "astratta", nel senso di non essere una raffigurazione precisa di qualcosa di sensibile, ma un semplice ritmo visivo, capace di richiamare alla mente diverse impressioni, o memorie, o emozioni.
Le ombre, oggettivamente, creano un disegno senza "intenzione" alcuna, puramente aleatorio, anche se - a pensarci bene - è originato da precise leggi della biologia (la morfologia vegetale) e della fisica (la diffusione della luce, la proiezione rettilinea delle ombre).
Più che di un vero "informalismo" pittorico, mi rammenta piuttosto il linguaggio musicale, dove una vibrazione, un suono, non sono in sé intenzionalmente significanti o significativi, ma nella loro organizzazione e interconnessione, sfuggendo a ogni raffigurazione mimetica di una realtà concreta, compongono un loro linguaggio, capace di evocare immagini e sensazioni.
In questo si comprende quanto vicina sia la Poesia alla Musica, appunto, di quanto queste due espressioni umane siano sorelle e condividano lo stesso destino di comunicazione.
Per questo vi lascio, se vorrete, alla lettura, senza ulteriori parole o spiegazioni. Non vi deve essere una "spiegazione" in quest'arte musicale del dire, solo una sensazione, un contatto tra lo scrittore e il lettore (il creatore e l'ascoltatore) che, nei casi più alti, è a doppio percorso: dall'autore a noi, da noi all'autore. Compiuto il quale, l'atto creativo e generativo - di significato, di comunicazione, di bellezza - raggiunge il suo senso più pieno.

A voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, con amore.

M.P.







Ramaglie


I rami crudi e nudi dell'olmo danno un'ombra
grifagna sul muro corroso, rigato di rivoli
gialli di tempeste ormai scordate. Ma forse
non sono rami, sono solchi spezzati, crepe
sul cristallo d'uno specchio infranto con rabbia,
a creare quell'illusione allo sguardo, o al ricordo.

Oppure, forse, sono le faglie, le sconnessure,
le piaghe della mia anima spaccata all'arsura
di cento e più giorni senza una pioggia, deserto
d'argilla rossa fratturata e rappresa in zolle
come il fondo d'un lago secco, oppure, ecco,
le vene contorte come torrenti nei polsi.

O sono gocce di pioggia che strisciano sui vetri
della finestra: hanno percorsi incauti, momenti
di pausa, di riflessione, o di titubanza
seguiti da precipitose accelerazioni, da fughe
senza speranza lasciando dietro a sé tracce
serpentine, come chi si fa strada tra le illusioni.

Oppure ancora, sono le ife dei muschi
che coprono i nostri rimpianti d'un fitto tessuto
di trina, oppure le tele dei ragni, alle bocche
delle forre, o delle caverne, geometrie di seta
lacerate dal vento o dalle grosse falene, oppure
soltanto il vestigio dei vasi sanguigni negli occhi

che proiettano sé stessi sulle pareti
del mio angusto mondo da prigioniera.
O non sono rami, né ombre, né luce
né pioggia. Sono solo ramaglie di questo
solitario malinconico intricato mio mondo,
dove come vuoi tu io mi perdo.



Marianna Piani
Milano, 11 Giugno 2015


 

sabato 2 gennaio 2016

Rimane il mare



Amiche care, amici,
prima composizione di quest'anno, un anno nuovo e già pieno di incertezze, di inquietudini, di promesse da tradire, di tradimenti da accettare.
Propositi per l'anno nuovo? Non ne ho, confesso. Potrei sfoderare un poca di retorica o molte nobilissime intenzioni, o anche semplicemente esporre i micro-obbiettivi quotidiani che ciascuno si pone.
Ma si tratta di un rituale ormai consunto. O forse semplicemente sono io a non comprenderne più il senso. In fondo è un innocente passatempo, un gioco di società, quello di tentare di ipotizzare il futuro, ma tanto vale affidarsi, come molti fanno, ai buttacarte, agli indovini da accatto di cui anche i nuovi media pullulano, proprio in questo periodo.
Il tempo è un continuum, cui noi abbiamo sovrapposto una serie di convenzioni, in parte basate su ricorrenze naturali, in parte del tutto arbitrarie. Ne sentiamo il forte bisogno, perché almeno così ci possiamo illudere di "conoscere e quindi controllare" un fenomeno del tutto trascendente come è appunto il Tempo. La verità  - che ci sconcerta e ci sconforta - è che noi nulla possiamo nei confronti del nostro futuro, il nostro "controllo" si limita a una catena di scelte che provocano conseguenze che a loro volta impongono altre scelte, e così via. Gli Antchi lo definivano "Destino".  Noi la consideriamo casualità. In ogni caso è al di fuori della nostra umana volontà.

Per questo mi pare cada bene in questo momento condividere con voi questa mia piccola riflessione sul tempo, il suo ineluttabile trascorrere, il deposito delle sue scorie nella nostra memoria, e soprattutto la riflessione su cosa, di tutto questo, della nostra vita, alla fine ci rimane, una volta che anche il presente più urgente e vivo si trasfigura ineluttabilmente in passato.

La "buttai giù" - questa composizione -  all'inizio di quest'estate, dopo un breve passaggio nella mia città natale, e osservando in quella occasione più che in altre quanto i paesaggi della mia memoria fossero stati ormai sopraffatti, cancellati dal reale e dall'attuale, dal contingente e dal mutamento. Anche qui, in questa città relativamente pigra, piuttosto inerte nel suo processo di evoluzione, se non altro per l'angustia del territorio che la circonda, stretta tra un retroterra arido e pietroso e un mare increspato e geloso.
Cosa ci rimane, al di là del tempo, se non semplicemente ciò che siamo, e il riflesso delle vacillanti immagini della nostra memoria?

Amiche dilette, amici, grazie per essere con me qui per qualche minuto anche oggi, approfitto per un saluto speciale e un augurio di cuore per un anno sereno e con tanto, tanto amore.

M.P.




 


Adriatico





Rimane il mare

 

Non ci sono più - i naviganti.
Non dico quelli dei romanzi
d'avventura, o gli eroi di Melville
o di Conrad, ma neppure quelli
dei racconti e dei narrari famigliari,
i capitani di lungo corso, i nostromi,
i marittimi con una donna in ogni porto
presunto, o immaginario, o sepolto.

E non ci sono più neppure
i pescatori, che da bimba ammiravo
lungo i moli a fissare nere reti,
a sbarcare magre casse di languenti
pesci, dallo sguardo addolorato,
e non c'è più quell'acre odor di morte
confuso alla salsedine e al petrolio
che penetra ogni fiato e ogni scoglio.

Le rare navi, le barche malinconamente
abbracciate le une all'altre, i natanti
da diporto, altezzosi come gabbiani,
tutti paiono ora sospesi in attesa
d'un partire che non può mai più avvenire..
Le strutture grigie dell'antico scalo
hanno occhiaie cave e ossa d'inferriate
arrugginite, come carcasse scarnificate.

 

* *

Rimane il mare: una piana vuota
che si stende all'orizzonte come sempre,
come una promessa di un altrove,
d'un ogni dove, d'un eterno emigrare.
Rimane il pontile, ora in cemento,
in cima al quale in faccia al vento
mi sedevo, senza badare al catrame
che macchiava la mia gonna color panna.

Rimangono i miei piedi giovani, piccini,
a dondolare poche spanne sopra il riflesso
di me stessa su quell'onde emaciate,
su quell'onde indolenti, ammalate,
iridescenti, cullanti alghe morte
in una putredine incipiente, e rimane
la mia mano sopra valve di molluschi,
morti, e i miei occhi persi all'infinito.

Rimane indicibile quel vuoto

di là dall'orizzonte, quel largo arco 
di un mondo che si cela oltre un confine
che non è confine, ma bensì varco,
che non è barriera, è invece ponte.
Rimane il senso di quell'amore,
di quella sete, di quell'ardore
di libertà che il litorale dà

solo a chi vi nasce:
rimane il mare, per mutare,
per saper partire, per comprendere
l'Esilio, per potervi qui morire.


Marianna Piani
Milano, 15 Giugno 2015