«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

martedì 29 dicembre 2015

Les Parisiennes de Kiraz








Per questo scorcio di fine anno, care amiche e amici, torniamo dunque a Parigi, dimenticando per un attimo ciò che accadde ahimé poche, pochissime settimane fa...

Una Parigi innamorata, lieve, piovosa, profumata di bistrot, di Gauloises ("Liberté Toujours": io odio il fumo, ma come non associare Parigi con queste spaccapolmoni dal motto irrinunciabile), di Chanel, di Senna, di Rive Gauche, e illuminata dalla luce delle meravigliose Gallerie del d'Orsay, del Louvre…

La Parigi che amiamo, che adoriamo, la Parigi dove io, se potessi, sceglierei di vivere per sempre, dove appena posso mi precipito (così vicina in fondo com'è da Milano: poche ore di treno veloce), la Parigi dell'Arte, della Libertà, della Speranza, il Sogno, l'Utopia per una Europa Illuminata, Umanistica, Umanizzata…
E poi il suono di quella lingua rotonda, dolcissima, così incredibilmente differenziata tra la elegante virilità del tono maschile e la tendresse, la sensualità affascinante di quello femminile.

Dite che stravedo, che idealizzo, che dico banalità e romanticherie stereotipate? Sarà così. Ma io a queste "romanticherie", mie care, non rinuncerei mai. In barba a tutti i barbuti truci profeti,  integralisti, moralisti, terroristi del mondo!

Parigi la voglio simbolicamente "vivere" qui con voi - per un attimo - attraverso il pennello, delizioso, personalissimo ed elegantissimo, di un genio dell'illustrazione come Kiraz.
Nelle sue "vignette", apparentemente del tutto disimpegnate, sexy, frivole, venate di un erotismo dichiarato e a volte prorompente, secondo me si respira in pieno l'atmosfera di questa straordinaria, unica città.
Una città è fatta non solo dall'architettura, dal suo passato, ma innanzi tutto, nel presente, dalle persone che vi nascono e vivono. Le donne di Parigi sono davvero inconfondibili, e parlo di oggi, non di un più o meno lontano passato. Chiunque abbia visitato o visiti questa città con un occhio attento non può non può confermare.
E le ragazze di Kiraz non "rappresentano" Parigi: esse "sono" Parigi…

 

Amiche dilette, amici carissimi,

un anno nuovo, meraviglioso, a voi, con tanto, tanto amore dalla vostra affezionatissima Marianna.

M.P.











Les Parisiennes de Kiraz


Di ragazze così ne vedi
tante lassù, a Parigi,
ragazze quasi astratte,
frettolose come gatte, nei vicoli
e nei boulevard, ai tavolini
tondi dei caffè, ne vedi...

Disegnate a mano certa
e certamente innamorata,
con una sola, sinuosa linea
sulla carta come il filo del loro
petto eretto, o quello delle anche

e delle caviglie superbe e altere.

Gli occhi vasti, ombrosi,
remoti come stelle, e come tali
del tutto assenti, indifferenti
a sguardi, a complimenti
o anche offese, tanto come angeli
provengono dal cielo e vanno altrove.

Le lunghe gambe nude culminanti
in svelti arcuati piedi
da danceuse, così eleganti
e tesi da suscitare il pianto.
E i capelli, chiari oppure
così neri da perderci la mente.

Tu vedendole le diresti finte
per quanto appaion vere,
che il loro spazio sia quello
superficiale della carta
in cui sono ritratte; e invece
eccole spuntare dal metrò

a coppie, a gruppi, oppure
orgogliosamente solitarie,
con le loro sporte d'eleganza
o i libri densi di studi d'arte
o legge, o letteratura, e in un lampo
si disperdono nei viali.

Di ragazze così ne vedi
tante nelle folle di Parigi:
quest'è l'incanto d'una città
che sta nella sapiente punta
d'una matita, tutta, e la malìa
della sua femminilità perfetta

assolutamente appassionata.



Marianna Piani
Milano, 4 Giugno 2015

sabato 26 dicembre 2015

Dal vero



Amiche care, amici,

per prima cosa, buone feste a tutti, proprio tutti.

 
La "festività" di questi giorni è religiosa, per chi ha fede - bisogna ricordare. E costoro, se sono coerenti con il loro sentimento profondo, coglieranno certo l'occasione per rimeditare sui fondamenti del loro pensiero e del loro stile di vita. Una Religione - ogni Religione - è il sedimento di millenni di riflessione umana, alla ricerca di una trascendenza, di un riscatto terreno, e, quasi sempre, di una promessa di Giustizia per i Giusti e di Misericordia per i deboli.

Per tutti gli altri - agnostici, incerti, tiepidi, atei, miscredenti o osservanti di altre Confessioni - questa ricorrenza - la più importante nel nostro mondo occidentale, non a caso essa cade alla svolta delle stagioni, al trapasso da un anno all'altro - rappresenta una occasione do pausa dal quotidiano per provare a ritrovare la serenità, il conforto, la quiete, accanto alle persone che amiamo e che ci amano.
Dunque un caro abbraccio a tutte e a tutti, alle vostre famiglie, compagni, amici.

Vi lascio una cosetta che scrissi all'inizio di questa estate, in stile leggero un pochino alla Umberto Saba: non una composizione di circostanza natalizia dunque, nemmeno alla lontana. Si tratta di un ritrattino, colto al volo, di una ragazza (probabilmente insegnante al vicino Liceo Artistico) che ho visto spesso, in quei giorni, indugiare al baretto che dà sulla piazza vicino a casa mia per esercitarsi su uno sketchbook al disegno dal vero.
Dovrei farlo anch'io più spesso, data la mia professione, ma col passare del tempo finisce per prevalere la pigrizia: quando si disegna molto per mestiere, "per portare il pane a casa",  il più delle volte si lascia il lavoro stanchi, si ha poca voglia di continuare a farlo al di fuori dell'esercizio professionale, e si perde il gusto di farlo per puro diletto, o quanto meno per affinare la propria abilità.
Rimane però intatta la mia tendenza a schizzare bozzetti in versi, una tendenza che di certo ha origine nella mia formazione (e pratica) di "artista visiva". I miei taccuini ospitano ormai più spesso note di scrittura, idee, parole, spunti e appunti, piuttosto che disegni e bozzetti.
Ma comunque si tratta sempre di attimi di osservazione, e la capacità di osservazione è il primo strumento di un artista visivo - e probabilmente di qualunque genere di artista.

Lascio dunque questo piccolo ritratto alla vostra lettura, amiche dilette e amici, sperando che possa incontrare il vostro gradimento.

Con amore

M.P.






Dal vero


Da qualche giorno, ora
che la stagione indora
anticipando l'estate, ogni giorno
viene nella piazza,
sola, sotto un cappello
a larghe tese, quella ragazza.

Si ferma, di buon mattino
e sosta per un'ora o poco meno
allo stesso tavolino, davanti
a un caffè e un bicchiere
forse di vino, oppure,
più di rado, un gelato

al cioccolato: rimane
per qualche tempo a guardare
attorno, e finalmente
estrae dalla borsetta il taccuino
e inizia discretamente a tracciare
sulla carta ciò che le appare.

Persone, gente, volti estranei
che emergono come chimere
per pochi istanti, e riscompaiono
per sempre all'indomani,
colà dove l'oblio è il destino.
Lei con pochi tratti svelti

di pastello ferma il tempo.
Giusto nell'istante in cima
prima che la figura
s'inabissi nell'informe
indistinta massa di effimere
presenze e assenze quotidiane.

Se avessi io la matita ora
la ritrarrei così, seduta,
le belle gambe accavallate,
lo sguardo intenso e assorto
dietro l'onda dei capelli bruni
all'ombra del suo cappello chiaro

intenta a catturare al volo
la varietà stupenda della vita
che le sfugge innanzi senza posa
in tracce nitide graffiate
con dolcezza e rabbia
sopra un foglio bianco.


Marianna Piani
Milano, 6 Giugno 2015

 

mercoledì 23 dicembre 2015

Tessere



Amiche care, amici,

oggi vi propongo una composizione breve, piuttosto densa, nata da una mia visita in Cattedrale, nella mia città natale, e dalla strana sensazione che avevo provato calpestando alcuni frammenti di pavimento musivo, antico di secoli. Ma non sono i mosaici in sé l'argomento, ma ciò che essi sottendono, con la loro semplice presenza, immobile e apparentemente immutabile: il Tempo.
Qui parlo di "memoria", ma intesa come traccia umana dell'ineluttabile passaggio temporale. Del mistero della continua mutazione del nostro orizzonte in una unica direzione, dal passato al futuro, dove il presente è solo una contingenza, un punto in movimento, un luogo d'incrocio tra speranza (il futuro) e disperazione (il passato). L'impossibilità di comporre le tessere di un disegno ormai perduto per sempre, questo credo sia il dramma primo della condizione umana, "uomo" inteso quale probabilmente unico organismo in grado di riflettere/speculare sulla propria identità, e sulla propria irripetibilità come essere vivente.


Noi, il nostro corpo, ogni singola cellula che ci compone, si muove ineluttabilmente su un vettore unidirezionale, dal passato al futuro, eppure noi non siamo in grado di edificare dalle argille e dalle scorie del nostro passato una piattaforma che ci consenta di affrontare il futuro con una percezione consapevole e coerente, né tanto meno con una visione realmente prospettica, proiettata in avanti, al di là del nostro ristrettissimo orizzonte schiacciato in una dimensione lineare ridotta al trempo di un battito di cuore. In realtà siamo ciechi, nulla sappiamo di noi, né nel passato, né nel futuro. Procediamo in avanti, costantemente, ma da un battito al successivo, fino all'ultimo che ci è concesso, imprigionati in quel "momento", in quell'attimo vitale. La nostra vera conoscenza, nonostante la nostra ubris scientifica e filosofica, è limitata a quell'attimo. Possiamo solo immaginare miti di trascendenza, per non perderci nella follia della oscurità e solitudine che ci circonda.

Vi lascio con queste riflessioni, amiche dilette e amici cari, e affido alla vostra lettura questi appunti in versi, come sempre con amore.

M.P.





Tessere


Risuonano questi mosaici ai miei passi
di colori oro, rosso, blu marino,
ocra, celeste, viola, nero, vibrando
di un millennio di splendore
di divino orgoglio
e di strazio umano.
        Tali sono le memorie
del mio passato, tessere
divelte, esplose dal mosaico,
ognuna come un unico frammento
d'universo variopinto, ognuna
un'unica molecola di storia.

Impossibile ricostruire
l'intera trama del disegno,
troppo difforme, troppo evasiva
troppo folle per poter trovare
appena solo una traccia
di connessione che abbia motivo.
        Tra le mani rimane solo
un pugno irriducibile di gemme
disperse. Luccicanti al sole
di vana effimera bellezza
come cristalli di rugiada
sopra i petali d'una rosa morta.



Marianna Piani
Trieste, 1 Giugno 2015

sabato 19 dicembre 2015

Il sentiero dei fili di ragno


Amiche care, amici,

questo sentiero, a me ben noto, esiste, e queste impressioni un po' pittoriche po' sensuali non appartengono alla memoria, ma al presente.
Diversamente dalle mie abitudini, queste quartine libere mi si sono presentate - nella mente - proprio durante una delle mie passeggiate in quei luoghi a me prediletti, e le ho "buttate giù" ancora a caldo, appena rientrata a casa, prima che svanisse la "freschezza" dell'ispirazione.

Il mio modo di lavorare è di solito più riflessivo, più mediato dalla memoria, cerco se possibile di non lavorare "a caldo" poiché so bene che ciò che ne esce è molto influenzato dall'emozione viva, che tende a sovrastare e ottundere la tecnica espositiva, per me fondamentale per ogni lavoro artistico, tanto più per uno apparentemente così "facile e immediato" come lo scrivere in versi. Non a caso la maggior parte degli appunti o piccole composizioni da me scritte d'impulso dopo una forte emozione è destinata a finire nel cestino, oppure ad essere profondamente rimaneggiata.
In questo caso però si trattava di una emozione quieta, sottotraccia, provata mille volte, e in quel momento avevo semplicemente trovato dentro di me le parole, i suoni e il ritmo per esprimerla. Sarebbe stato un peccato non cogliere al volo un bozzetto che si era già così ben formato nella mia testa. Inoltre a volte non c'é studio o lavorio che tenga, il risultato si presenta già spontaneamente definito, senza sforzo, certo scaturendo all'improvviso dopo una lunga elaborazione inconscia, una maturazione silenziosa, dentro di noi. Sono momenti felici questi, al di là del valore o meno del risultato, come sa chiunque per mestiere o per diletto si occupi di creazione artistica, in ogni campo.

Dunque, questo "sentiero" esiste nella realtà, poco dietro il mio "rifugio" di Nebbiuno, e in questi giorni di pausa lo ritroverò, e lo ripercorrerò, come sempre in perfetta solitudine, al mattino dopo l'alba, oppure appena prima del tramonto: non potete immaginare quanto queste passeggiate, o brevi corse leggere, rimurginando e respirando questa atmosfera libera e di serena naturalità, siano preziose per il mio precario equilibrio mentale, meglio, molto meglio di qualunque dose di farmaci, diretti più che altro ad annebbiare e punire le mie sinapsi ribelli e recalcitranti.

…I più accorti tra voi avranno certo colto nel titolo una assonanza con il primo romanzo di Italo Calvino, da me molto amato, come il suo autore. Si è trattato di una coincidenza o di una associazione mentale spontanea, in realtà casuale e priva di relazione con il contenuto della composizione, ma ho voluto comunque tenerlo così, non mi dispiaceva considerarlo un piccolo omaggio indiretto all'autore delle Cosmicomiche, delle Città Invisibili, delle Lezioni Americane...

Amiche dilette, amici, vi lascio alla lettura, se vorrete, di questo piccolo idillio mattutino, come sempre con amore.

M.P.




Nebbiuno (NO) - Foto personale




Il sentiero dei fili di ragno


Ho ripreso, dopo tempo, il sentiero
ben noto dei miei boschi, che risale
senza fatica le alture che s'affollano
come giganti bagnanti sul lago.

Le pietre sfrantumano ai miei passi
rendendoli più incerti ancora di quanto
è loro natura, piegando i pedi
e le caviglie fin quasi a fiaccarle.

Queste pietre sono la dolce voce
delle più spensierate mie fughe:
crocchiando, e cozzando, e ruzzando,
avvertivano i tassi e le lepri

del mio arrivo da lunga distanza.
Per ciò era raro incontrare animali
allora come ora, neppure i picchi,
che pur udivo spaccare cortecce.

Sapevo che erano boschi abitati
da cervi, cinghiali e alcune specie
di serpi, e ancor oggi sogno incrociare
qualche fiera emersa dalla boscaglia.

No, non temo animali di alcun genere
e specie, né mai li temetti, o ne ebbi
ribrezzo: a scuola ero io a infilare
rane vive nelle magliette dei maschi

per sentirli strillare, e ancora adesso
posso lasciare un insetto esplorare
il mio palmo senza reagire al tocco
delle zampine leggere, adesive,

sì, senza rabbrividire. Quante volte
da allora avrò percorso quei sentieri
seguendo passo passo la mia ombra
sottile sfiorare i sassi, saltare

di là dei rivoli e dei torrenti?
E ancora oggi mi ritrovo perenne
adolescente in fuga e ricerca
di un qualcosa che non oso spiegare.

M'infilo in quel passaggio tra i cespugli
e i roveti e alti fusti di querce
e abeti, e cammino, a lungo, lungo
il mattino senza badare al tempo

che scorre giù dal dirupo, e ai fili
di ragno iridescenti come raggi
finissimi filtrati filanti tra i rami
che mi afferrano la fronte e gli occhi

e s'avviluppano ai capelli, tenaci
e viscosi come i miei pensieri:
come essi forse m'imprigioneranno
e mai più, mai più mi libereranno.



Marianna Piani
Nebbiuno, 8 Giugno 2015

mercoledì 16 dicembre 2015

I capodogli


Amiche care, amici,

come mi accade piuttosto frequentemente, questa composizione nasce da una scelta, una decisione a un bivio del sentiero di scrittura che sono sul punto di intraprendere.

In questo caso io avevo in mente - quasi per intero - una idea precisa per questa lirica, nata "in loco", proprio nei luoghi di cui intendevo narrare, luoghi della  memoria e culla della mia immaginazione.

Ma mi fermai - a lungo - su un dettaglio, in apparenza del tutto minimo e incidentale, quel desueto e un poco strapoetico "in guisa di" anzichè il più semplice e colloquiale - e attuale - "come" (v. inizio II strofa). Ho indugiato su questo punto, come vi dicevo, a lungo, poiché la scelta in quel preciso passaggio di una espressione o dell'altra avrebbe portato l'intera composizione in una direzione oppure in un'altra, divaricandosi in risultati assai lontani tra loro.

Alla fine, dato il soggetto intimo, riflessivo, e legato a immagini letterarie e fantastiche (i luoghi d'avventura) assieme a figure della realtà viste con lo sguardo del mito (i pescatori), decisi di imboccare proprio la via indicata da quel "in guisa di", che mi conduceva ineluttabilmente su un territorio linguistico e prosodico scopertamente classicheggiante, con echi quasi ottocenteschi. Naturalmente si tratta di una reinterpretazione, un gioco sul filo sottile del gusto, ma sentivo che queste immagini della memoria e dell'infanzia potevano trovare così, e solo così, la loro espressione più immediata e naturale, un poco come tradurre all'oggi l'atmosfera, la sensibilità, il profumo di un tempo ormai definitivamente consumato e ancora in sedimentazione.

Amiche dilette, amici cari, lascio alla vostra lettura queste mie fascinazioni dalle rive del "mio mare", sempre con amore.

M.P.






I capodogli


Questo è lo sperone di roccia viva
che mi vedeva, bimbetta ancora,
indugiare a mirare il mare:

m'arrampicavo in guisa di capretta
su per il bianco ruvido calcare,
sedevo all'orlo, gambine ciondoloni

sopra questa immensa stesa d'incertezza
da perder l'occhio fin nelle foschie
che celavano gelose all'orizzonte

mitici remoti luoghi d'avventura:
colà s'affrontavano tra gli urlanti
uragani i capodogli e i leviatani.

Questo era il sedile bianco calcinato
dal gran sole dell'estate ove io
mi aggrappavo alle pagine parlanti

delle mie letture, così fragranti
dei profumi di pinete e di ginepri,
per librarmi nel volo delle mie visioni.

Quella era laggiù la costa serpeggiante
tra le grotte e le cale delle marine
odorose di salsedine e di pesce

morto, laggiù rugosi pescatori
scuri e duri come bronzi cucivano
le reti, seduti tra i galleggianti

rossi e bianchi, in tutto ai miei occhi
incantati uguali a divinità marine
intente alle loro cure ultraterrene.

Questo era il luogo prediletto

ove assistevo al mirabile confluire
del mondo naturale del mio mare

e quello onnivoro del mio sentire.



Marianna Piani
Trieste, alba del 2 Maggio 2015



domenica 13 dicembre 2015

Torre


Amiche care, amici,

a poche centinaia di metri da casa mia, a Milano, hanno da poco finito di edificare una alta torre in stile nuovayorchese, un poco simile al vecchio "Pirellone", un parallelepipedo schiacciato, ma molto più imponente. Lo vedo dalle finestre di casa, e ho seguito la sua crescita graduale, piuttosto rapida, e ora domina la skyline che  vedo dai miei balconi, prima piuttosto libera (e anche un poco deprimente) dopo la demolizione dei vecchi edifici della Fiera.
Non me ne lamento più di tanto, non sono così vicina da sentirmi oppressa da quell'edificio, e capisco bene che le città, come ogni faccenda umana, crescono, si evolvono, o decadono. Il cambiamento è inevitabile, e in ogni caso sempre necessario. Il cambiamento, in positivo o negativo, è vitale, il non-cambiamento, la stasi, il coma, quello è mortale.

La domanda che mi faccio, quando mi affaccio alla finestra, è piuttosto se questo sia un segno di progresso, di evoluzione, oppure viceversa di decadenza, di finale della nostra civiltà, una sorta di monolito dell'Isola di Pasqua trasferito nel paesaggio milanese di inizio millennio. Un segno, un simbolo, piccolo, minimale, ma pur sempre una dichiarazione espressa e definitiva in un senso o nell'altro. È questo, credo, il linguaggio dell'architettura, la grande, la piccola, la monumentale, la quotidiana. Quello con cui una civiltà si esprime nel corso della sua storia, via via di sorgenza, di crescita, di evoluzione, di decadenza e di fine.

Come potrete intuire dalla composizione che vi propongo oggi, io propendo per quest'ultima ipotesi. Vedere certe costruzioni in un certo senso faraoniche, in questi tempi in cui una architettura sana dovrebbe occuparsi principalmente di una migliore utilizzazione del territorio, della non invasione di ulteriori spazi in orizzontale come in verticale, della buona gestione/utilizzazione delle risorse residue, della edificazione di spazi umani a "misura d'uomo", di incrocio culturale, di convivenza non infernale ma pacifica, di apertura all'esterno anziché chiusura - anche simbolica - dentro gigantesche scatole di cereali come queste, mi comunica un senso di angosciosa insensibilità al mondo che si dibatte sotto di loro, di inutile dichiarazione di maestosità e di separazione per celare una profonda, ormai definitiva impotenza.
Opinione personale, ovviamente: sicuramente c'è chi sarà ben felice di occupare quei prestigiosi appartamenti, di parcheggiare la sua SUV scura negli ampi garage, di godersi l'esclusività dei suoi giardinetti transennati, di affacciarsi e vedere in distanza, nelle (poche) giornata limpide, lo spettacolo "esclusivo" delle alpi che presto biancheggeranno di neve. Pensando alla prossima "settimana bianca" lontana, serena e ricca di raggi UV sulla pelle.
Tanto, là di sotto, il mondo continua il suo affanno, e l'iceberg, immenso, se ne rimane per ora lì, ancora celato nella nebbia padana.

Condivido con voi, amiche dilette e amici, come sempre, con amore.

M.P.




Torre


Preferirei stare
in cima a quella estrema guglia
a duecento metri sopra l'asfalto
nero appena steso del piazzale

e osservare attorno
la poca vita ancor rimasta
sotto i miei piedi. Appena giorno
un fremito di vento mi farà oscillare

come un acrobata
nel cielo terso e arso
sulla città sconfitta, ridotta
al silenzio da una notte che si protrae.

Cittadini e vetture
paiono immobili là sotto, non credo
sappiano quanto sia tracotante ibrido
e blasfemo quest'inumano tentativo

d'innalzarsi a Dio.
Un immenso paravento eretto
come un intollerabile protervo insulto
al riserbo di chi prova ancora a sperare.

Un fallo quadrangolare
che si staglia inverecondo contro
un'orizzonte confusa nel fosco particolato.
Tempio di una Fede in nulla che non sia preda.

Quanti uomini, e donne
morirono per quest'idolo impietrito,
e quanti ancora morranno, ignari e ignoti
sui candidi gelidi gradini della Cattedrale?

Io lassù, aggrappata
che paio una stramba bandiera bianca
lacerata, con la mia gonna che coglie il vento,
sorprendendo, non soccomberò, ma griderò

la mia completa libertà
al di là delle murate di vetro
e di cemento, al di là di queste finestre
perforate dal cielo, al di là

del mio stesso lamento.



Marianna Piani
Milano, 26 Maggio 2015


mercoledì 9 dicembre 2015

Per la sua strada


Amiche care, amici,

vi propongo questo madrigaletto dell'assenza (la "tigre assenza" per citare Cristina Campo), scritto attorno alla fine di un amore, perduto e mai più ritrovato, carto mai più con una tale intensità e profondità.
La domanda è come può accadere nelle relazioni umane che si stabiliscano legami così appassionati e forti, esclusivi e profondi, da parere che non possano mai sciogliersi, finché c'è vita nelle nostre vene.
E che poi proprio questi legami si sciolgano d'improvviso, senza motivo apparente, oppure per un'inezia, per un futile dettaglio.

Quando qualcuno che ami alla follia e da cui ti pensi riamata si rivolge a te con una frase come "lasciami respirare", oppure "ho bisogno di un mio spazio", senti il sangue raggelarsi nelle vene, ammutolisci, incapace di una qualsiasi replica. Sai di amare con tutto il cuore questa persona, ma il tuo amore d'un tratto viene vissuto come un'oppressione: ti senti sprofondare in una "colpa" che non riesci a riconoscere, poiché tutto il tuo cuore appartiene all'altra persona, e quindi come può mai sentire questo possesso come un peso? Ti rendi conto, di colpo, che tutta la tua vita accanto questa persona è stata segnata dalla sua assenza,  in quanto persona amata, che tutto è stato una illusione, un fallimento.
Così pensi; e non comprendi che questo è spesso il prezzo finale di un amore profondo e incondizionato, dell'affidarsi completamente a questo sentimento. A volte basta un attimo di squilibrio, e tutto il tuo castello fantastico crolla ai tuoi piedi.

Il senso di smarrimento poi è tale da renderti incapace di ritrovare pace, credi - e forse a ragione - che mai più potresti vivere quegli attimi così intensi, che la vita si fermi a quel punto, per te.

Per voi, amiche dilette e amici cari queste riflessioni, con tutto il mio amore.

M.P.





Per la sua strada.


La vita crea, la vita sfa.
Di tutte le persone belle
che amiamo nella vita, in fine
non ci rimane che la nebbia

nel cavo della loro assenza.
Non importano le parole
che svaporano nel sole,
non importa il vero

oppure il falso, tutto è affidato
solamente a un abbaglio
del pensiero vago.
All'ingannevole illusione

di un sogno vano.
Forse è spesa la mia parola
forse sospesa la mia figura
sopra un filo di memoria.

Chi mi ha tanto amato, un tempo
infinito ch'è ormai finito
ora è andato, senza rimpianto,
obliando quel primo tocco

della mano sulla mia mano
quale rabbioso vasto incendio
ha scatenato, e quel bacio
rubato sulla strada, tra la gente,

come ha saldato i destini
delle nostre anime ferventi
per un tempo che credevamo
illimitato - e che fu breve ahimè.

Breve come una folgore scoccata
sul prato accanto, accecante
per la frazione di un istante,
fatale per l'eterno al cuore

squassato, assordato. Ella va
dunque ora per la sua strada
disciogliendosi in memoria vaga:
la vita prende, ciò che da'.



Marianna Piani
Trieste, 31 Maggio, 2015




sabato 5 dicembre 2015

Delusa


Amiche care, amici,

dopo le divagazioni delle ultime settimane, per me piuttosto impegnative, oggi vorrei tornare ai territori a me più consueti: il racconto di un momento di vita, fotografato dalla memoria e impresso nella nostalgia, a distanza di un tempo che pare ora incalcolabile (ma in realtà è il giro di poche stagioni).
Stavolta resisterò, non appesantirò di prefazioni o commenti preliminari questo raccontino in versi liberi, di struttura semplicissima, quasi discorsiva.
Lo lascio volentieri del tutto disponibile alla vostra lettura, sempre così benevola, se avrete la bontà di concedermela.

Per voi, amiche dilette e amici, sempre con amore.

M.P.





Delusa


Stanotte, alquanto tardi, com'ė mio uso
mi coricai accanto alla mia sposa.
Era già buio: il mondo e il volto suo.
Fu nervosa oggi, lei, fin da prima sera,
"Sono delusa!" mi ripeteva,
mentre m'aiutava a rassettare
di malavoglia, non con la gioia
che più sovente l'illuminava.

Io non le chiesi nulla
perché sapevo, conoscevo cos'era
quel suo essere delusa, che era
non di me - o non soltanto - ma di sé.
Tagliò breve, nella sera, e raggiunse
il letto prima di me, assai prima,
il che non è raro, ma anche prima
che dilagasse il suo disagio.

Gettò il libro in un canto, dopo un minuto,
mi chiese di attaccare al filo il cellulare.
si tirò il piumone addosso fino alle spalle,
si girò col viso alla parete, e s'allontanò
con l'anima il corpo ed il pensiero
da me e da ogni altra cura. Più tardi
io le scivolai quatta quatta al fianco
come una gatta, senza far rumore,

senza quasi flettere la rete a doghe,
al lume giallo fioco che ci dava
il mio solo abat-jour dal comodino.
Forse non mi sentì, o forse sì,
ma non si mosse, né mutò il respiro
gravido di notte. Rimasi anch'io, muta,
senza muovere un respiro,
mirando il soffitto bianco, a lungo.

Mi girai infine, cauta, e vidi
l'arco amabile delle sue spalle,
il flesso candido del lungo collo
ricoperto di finissima peluria,
e la fiamma arancio dei suoi capelli
liberi di fuggire scarmigliati sul guanciale
in corona, come raggi, agitati.
Non potei non pensare allora: "sei il mio sole".

E d'isinto lo dissi pure, con un sibilo
di voce. Lei non mi udì. O forse sì:
non si scosse. Né si mosse. Ma
un impercettibile fremito dell'anca
da sotto le nostre coltri, e io seppi
                                 che sorrideva.



Marianna Piani
Nebbiuno, 22 Maggio 2015

mercoledì 2 dicembre 2015

Illetterata


Amiche care, amici,

oggi sono un poco in ritardo sulla tabella di marcia, ma non voglio disattendere del tutto il nostro appuntamento, per me sempre assai importante.

Chi mi conosce sa la mia scarsa propensione per le "esibizioni" letterarie, per i concorsi di "poesia", per i salotti - virtuali e non - di certa cultura più vantata, esibita, a volte millantata che reale e realmente frequentata. E conosce la mia ritrosia a partecipare in qualsiasi modo a certe manifestazioni, anche rispettabilissime, ma lontane dal mio modo di pensare e vivere il mio piccolo impegno di scrittura.
Non è un a forma di snobismo, o forse anche lo è, ma quel che conta  è che io considero il fatto di scrivere in versi come una parte "necessaria" della mia vita, che però di per sé non può in alcun modo consegnarmi automaticamente il titolo di Poetessa, o Poeta. Lo potete leggere anche in presentazione di queste pagine, io mi considero una dilettante di scrittura, molto appassionata certo, ma sempre semplicemente una dilettante. In fondo è un gioco, un gioco serio, a volte anche doloroso, ma un gioco.

È ciò che mi sono "dilettata" a esprimere in questa composizione, formulando una specie di "manifesto" personale, un po' giocoso un po' no. Per dirla con Palazzeschi, un "Lasciatemi divertire" - che è una frasetta molto più profonda e impegnativa di quanto non si possa superficialmente pensare: in quel "divertire" c'è ironia, irriverenza, libertà. Essere appartati a volte è una scelta di libertà, credetemi. A me importa, conforta, onora e basta il dialogo con i lettori, spesso scrittori anch'essi come e più di me ma comunque liberi come me. Come voi.

Per voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, con amore.

M.P.




 

Illetterata


Credo che rinuncerò
alle belle tornite frasi,
alle parole ricercate,
al ragionar profondo,
al dire da iniziata formule
di antica esoterica alchimia.

Rinuncerò agli effetti
da mirabilia, al patatrac
dei mortaretti, al citar
cantando - maestri antichi
o vati contemporanei -
al cincischiare verbi

come fossero bocconi
acri da ingollare,
ricuserò gli agoni
le parate, l'esibizioni
che s'ammantano
di nobili mantelli

e di lauri ricoperti
di porporina, volentieri
lascerò ad altri la dolcezza
del miele di narcisi,
i diplomi e le illusioni
delle facili edizioni

Non starò nei gruppi scelti
dei #cancelletti culturali
o finti sapienziali,
a esibir me stessa
e la mia grande rinomata
illuminata conoscenza,

o gli studi di una vita
seppur superficiale,
non seguirò congreghe
d'aruspici e di careghe,
non mi lascerò sedurre
dai salotti e dai strambotti

delle stelle letterarie,
non impasterò nel bacile
deja vu e letteratura
e impúdica ambizione...
Se futile dev'essere
lo sia la mia vita.

La mia ambizione sia,
e il mio narciso,
una gonna corta
e sandali di lacca
esibiti nelle vie affollate
del centro cittadino.


* * *

Non sono "poetessa", forse
sono puttana, o forse artigiana,
e la materia del mio lavoro
è mescere sangue al fango
da cuocere al sole franco
per abbandonare infine il vaso

al mondo - ma gratuitamente.



Marianna Piani
Milano, 28 Maggio 2015
(Con uno speciale grazie a Luca)