«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

domenica 28 aprile 2013

Abbecedario XXI


Amiche dilettissime, amici cari, stiamo giungendo vicini alla conclusione di questo nostro abbecedario ideale in poesia. In realtà mi sono resa conto, nel corso del progetto, che esistono delle lettere, pur presenti nell'alfabeto italiano, per così dire biricchine, sfuggenti: la X, la Y, e W…
Per loro non ho trovato ispirazioni significative, per ora, comunque non tali da sentirle sufficientemente spontanee, non forzate.
Per questo mi sono ritrovata con delle paginette disponibili nel mio taccuino, e ho pensato subito di approfittarne, aggiungendo delle voci che sentivo premermi dentro. Ve le propongo ora qui, nella collocazione sempre strettamente alfabetica che ho scelto per questo mio gioco.
Ecco qui subito la lettera U, come Urgenza, che mi ha dato il destro per parlare in qualche modo di ciò che mi spinge a scrivere: non ambizione, letteraria o mondana, di alcun tipo, non esibizione, o bisogno di presenza, o emulazione, o confronto. Nulla di tutto questo. Semplicemente un "bisogno", una necessità, una Urgenza, appunto, indefinibile e ineluttabile come la Forza che costringe un grave a cadere e vincola tra loro gli astri…
Come sempre, la dedico a voi, amiche care, e amici, a tutti coloro che sentono l'urgenza di scrivere, o di leggere (due attività di pari dignità, scrittura e lettura, perfettamente reciproche tra loro), con amore.

M.P.





Abbecedario XXI

U

come l'Urgenza:



Ciò che spinge l'acqua del torrente
a precipitarsi spumeggiando verso valle
per congiungersi al mare impaziente.

Ciò che alimenta il respiro del vento
che discende sfrenato dagli altipiani
per impigliare il suo canto sopra i rami.

Ciò che trascina le maree a violare
gli arenili, e le spiagge, e i litorali,
fino a lambire le alte dune di grigia sabbia

e di rimpianto. E divellere, strappare, eradicare
ogni germoglio nella loro incontrastata corsa
per restituire alla terra tutta la sua desolazione.

Ciò che spinge la luna neghittosa al tramonto
a iniziare la sua veglia, e la sua rincorsa
framezzo mille nubi, venate di sangue e spuma.

Ciò che spinge gli amanti a confondersi
tra le braccia uno dell'altra come la neve
alfine sè fonde in seno al ruscello rilucente.

Così, ineluttabile, è ciò che mi spinge
a rammendar parole, e a lasciare al mondo
ghirlande di versi, rosari di candide memorie.

È ciò che mi richiede di chiedere agli estremi raggi
dell'incipiente notte perdono per ciò che fummo
e per la nostra disperata resa nell'oscuro male.

È ciò che ci eleva sopra le onde del nostro fato
e ci detta parole come saette nella tempesta
per illuminare la nostra rotta, che è soltanto amore.

Questa dunque è Urgenza, sempre mia severa

inseparabile compagna…


Milano, 18  Gennaio 2013
Marianna Piani

sabato 27 aprile 2013

Fiume Poesia (Prima parte)


Amiche care, amici gentili. Ho composto questa sorta di poemetto praticamente in una notte, di getto, in omaggio ad una poetessa e donna e un'artista di grande spessore, di cui ho la fortuna e l'onore di godere l'amicizia, Rosanna Marani.
Ho immaginato lei, la sua inimitabile Poesia, come un fiume da esplorare risalendolo, in tutti i suoi multiformi e mutevoli aspetti, dal suo sfociare nel mare, al suo scorrere in pianure ampie e placate, fino alle sorgenti, tra le rocce di impervie montagne. Rosanna infatti, come un fiume, può essere larga, ampia, quieta, oppure agitata, schiumante, rapida come un torrente, o un fresco limpido rigagnolo di grazia in prossimità della sorgente.
Questo viaggio di esplorazione però per me è anche la metafora di un itinerario di scoperta della Poesia stessa.
Rosanna di certo non me ne avrà, ma parlare di lei, con lei, per me è un pretesto e un'occasione irrinunciabile per parlare di Poesia: la Poesia è conoscenza, è coscienza, è magia, è mistero, è scienza, è pazienza, è coraggio, è indulgenza…
Il poemetto è piuttosto ampio, come merita il soggetto, ed è articolato in tre capitoli più un prologo ed un epilogo, come le tappe di un vero e proprio viaggio di ricerca e di iniziazione.
Lo pubblicherò qui via via, un capitolo per volta, per permettervi di partecipare a questo viaggio senza perdervi, e senza stancarvi…

Lo dedico interamente a  Rosanna, e a voi amiche dilette e amici. Con amore, sempre

M.P.



Fiume Poesia


Prologo, all'alba

Domenica, l'alba: oggi giornata di caccia.
Dico ridendo, alle amiche che sobbalzando
mi fanno tanto di faccia: ma no, questa mia caccia
è alle emozioni e, se la scovo, in quell'anfratto
dove s'annida, all'anima mia selvaggia...

Dismetto per oggi i miei sandaletti col tacco,
per quanto di più mi si confacciano, e via la gonna plissé
e la camicetta di seta bianca. Indosso zuavi verdoni
elasticizzati, il giaccone in goretex nero e bluette
e le mie Lowa di cuoio che fanno di me tanto una Hobbit

fatta e finita, e calco un cappellaccio da maschio, caricando
il mio zainetto, alla rinfusa, Dickinson, Karin Boye
e Sylvia Plath per ristorarmi e dissetarmi, all'occorrenza.
Sono di fronte a un vasto mare ora, dietro me s'allarga
il delta del fiume, un abbraccio come di madre, confortante.


I
A valle placido scorre

Ecco: questo è il Fiume che voglio risalire, fino alla sorgente.
Fino a che avrò raggiunto l'origine di questo mistero
di conoscenza e di grazia, e questa mirabile lungimiranza
che lascia spaziare lo sguardo e la mente nell'orizzonte
di un cielo tormentato tra tempesta e sereno incombenti.

Qui ha il nome di estuario, dove le acque, cariche di memoria,
dense di storia, sagge di vita trascorsa tra le rocce montane
e le risaie delle piane, si distendono, pigre, ritardando
il loro avanzare, fino a confondere le dolci acque gravide
di sedimenti torbidi o chiari con le infinite onde del mare.

E qui finisce e inizia il Fiume, regale, solenne orazione
levata al mondo, nel suo mormorio profondo, privo
di ogni fretta o ansiosa attesa, già pago di grevi piogge,
di secche, di piene, di placide chiatte, di chiuse, di ponti
tra sponde sorelle, eppure opposte, del tutto diverse:

una sponda piana, l'altra scoscesa, una dolce, l'altra aspra, una saggia
e l'altra folle, una arginata di rocce, l'altra dispersa nei canneti.
Il suo moto denso, senza scosse, è presagio soltanto
di incombenti alluvioni, quando ogni cosa, ogni manufatto,
ogni ricordo dell'uomo può esser travolto e sopraffatto.

Più avanti, trascorse città luccicanti e pianure protette di nebbie,
il Fiume, ringiovanendo, si fa Fiume di Valle, con turbinosi
moti di correnti infide, potenti, che si fan strada tra i sassi
e le pietre affioranti, trascinando con sé rami divelti e tronchi
di alberi morti, come memorie che ingorgano il cuore.

E al temporale occorso più a monte, risponde la rabbia,
l'indignazione di mulinelli, di gorghi, di flutti
che s'infilano lesti come gatti sotto gli archi di pietre
nude dei ponti rurali, sempre a rischio d'esser travolti
quando la rabbia e la furia delle acque si fa quasi urlo.

La voce diviene via via più imponente, un canto spiegato,
fino a coprire la voce dei miei stessi pensieri, quando siedo
a riposare sull'argine, a mirare il passaggio di barche
pericolanti  in sella a flutti sempre più sfrenati, più selvaggi,
più verticali, più ribollenti, più schiumosi di ira ribelle.

Risalgo il letto, che stringe impercettibilmente
e si fa aspro, tagliente, mentre il mio procedere
controcorrente passo passo mi porta ridosso
di rapide che sfavillano al sole, rifrangendo
come cristalli i profili di vette che già incombono

dietro le selve. E io fatico, come faticano
i salmoni, spinti dal loro fato, inesorabilmente:
il medesimo fato che sopporta il poeta
nel suo progredire in parete, scavandosi
a mani nude la via, verso il cielo accecante.

Milano, 11 Marzo 2013
Per Rosanna Marani
"Fiume come Poesia"
Marianna Piani


mercoledì 24 aprile 2013

Dolce certezza


Amiche care, e amici, questa piccola lirica l'ho composta tempo fa per un'amica poetessa, in risposta ad una delle sue liriche, lievi e dolci come una primavera precoce, di quelle primavere che si affacciano con il loro tepore in un paesaggio ancora invernale, e fanno sbocciare le prime più coraggiose, o illuse, o temerarie gemme. La leggerezza è un valore che ammiro immensamente, dal momento che la mia ispirazione da sempre tende ad essere fluviale, densa, e se non lotto vigorosamente con me stessa, anche greve. È curioso come io, di natura tendenzialmente complessa, barocca, a volte prolissa nella scrittura, ami e ammiri - e quanto! - la sintesi, la concisione, la capacità di esprimere emozioni in poche essenziali parole. È un dono grande, per chi l'ha.
Dedico questa composizione a Laura Sansone, e a tutte voi amiche dilette e amici. Con amore.
M.P.



Dolce certezza

Dolce...
Dolce, sì,
dolce carezza,
e in più la certezza
del nostro cuore
che su quelle onde
che rabbrividiscono il mare
a quella brezza,
in un luogo lontano
eppur così vicino
se è l'anima a viaggiare,
ci sia Amore
che soffia leggero
sopra di noi
il suo alito
profumato di salso
e di fieno,
e ci investa
sollevandoci le vesti
in un trasognante
risveglio di sensi.
Come gemme
che al primo bagliore
del sole di Marzo
s'aprono fiduciose
sui rami sbocciando
non temendo, non sapendo,
non credendo possibile
l'imminente ritorno del gelo.
Non v'è più gelo
se il piccolo dio alato
continua a soffiare...



Milano, 11 Marzo 2013
Per Laura, poetessa  amica
Marianna Piani

domenica 21 aprile 2013

Abbecedario XX


Amiche dilette, e amici cari, ventesimo capitolo del nostro piccolo Abbecedario poetico.
In questo poemetto io tratto di una Virtù che non mi appartiene molto, lo confesso in tutta sincerità, per cui ho voluto narrare piuttosto una fiaba, e un aplogo. Una visione di pura fantasia, eppure vissuta intimamente, per significare come può sfolgorare la luce dell'Umiltà - la voce prescelta come lettera "U" - in contrasto, o addirittura in virtù dello sfarzo della ricchezza e del potere.
Perché l'Umiltà non è umiliazione. È dignità. Che conquista l'ammirazione del mondo.

Per voi, amiche care e amici, con amore
M.P.




Abbecedario XX
  
U

come Umiltà

Ascolta, mio giovane Principe,
ascolta la mia voce, tra le mille
deposte devotamente ai tuoi piedi,
sopra i petali delle rose
spogliate dai tuoi duecento roseti
in onor tuo, per il tuo piacere sparsi
come un rosso tappeto d'intenso profumo.
Accogli la mia voce, ti prego, e ascolta.

Quanto t'ammirai, ascolta,
il giorno della parata di Maggio,
quando nel pieno clamore
dei cimbali e delle buccine festanti
ti fermasti, e quasi non visto,
discendesti dal tuo immenso
antico paziente elefante bianco,
turrito d'alabastro di sete e del sole d'Oriente.

Molti tra chi ti scorsero si chiesero
il motivo del tuo repentino mutare pensiero,
mutare d'aspetto, mentre ti affrettavi
verso quel vegliardo, raggrumato e bianco
come un masso sul margine della via maestra,
recando con te una ciotola nera scavata nel legno,
con un'oncia di zuppa, fredda, e lo raggiungevi,
mentre egli alzava su te il suo sguardo sereno.

Molti tra coloro che c'erano, nulla sapevano.
Ma tu sapevi, chi era quel vecchio,
che fu Principe prima di te sul trono che lasciò,
che più di te fu carico di gloria e di onori,
più d'ogni altro al mondo, prima dell'illuminazione.
E tu ora ne conoscevi tutti i mirabili scritti,
quei tre volumi in versi ternari, temerari,
che sconvolsero il mondo e squassarono i regni.

Il vecchio vedendoti giungere sorrise
col suo soave viso scavato, che tu sapevi
distillato da mille anni di immensa saggezza,
e a lui ti accostasti, per qualche istante,
giacendo ai suoi piedi, osservando le ferite
che ne segnavano i passi sulle pietre taglienti
di quelle aspre contrade, e lui fu contento di te,
e del dono che recavi con te, e gli porgevi.

E ora, mentre risalivi in cima al tuo
sfolgorante immenso elefante bianco,
sapevi quant'era più in alto, egli, nei suoi cenci,
in grazia della grazia dei suoi versi immensi
che tu mai potrai eguagliare,
in tutto il tuo potere, in tutto il tuo sapere;
e ti giravi e  mentre lo osservavi allontanarsi di spalle
senza fretta, stringendo a sè il tuo dono,

tu sapevi, per certo, dov'era diretto,
e già lo vedevi, in cima alla sua roccia
in faccia all'oceano gonfio di schiuma
tempestato di vento, a condividere il tuo dono
di povero riso e legumi dalla ciotola nera
con i gabbiani, unici prìncipi dei mari e delle correnti.
Perché sapevi quanto egli sapeva che non uno
dei suoi trentaduemila  illuminati versi valesse

il volo libero armonioso sicuro, solenne,
di uno solo di quegli uccelli incoscienti.
Ecco, giovane principe, quanto t'ammirai quel giorno:
perché conobbi attraverso te il senso
del nulla vincente di fronte al tutto,
perché seppi dare nome
a ciò che vidi infiammare il tuo volto
nel tuo sguardo nero profondo da indiano.

. . .

Perché conobbi da te,
e tramite te dal tuo Maestro più sommo,
che l'Umiltà non veste giammai
i logori cenci dell'Umiliazione,
ma indossa con spontanea grazia
e potente rassegnazione
il lussuoso lussureggiante gioioso
regale mantello dell'Ammirazione.


Milano, 16 Agosto 2012
Marianna Piani

sabato 20 aprile 2013

Baci dati, un bacio preso (2)


Amiche care, e amici, come anticipato, ecco per voi la terza "pala" del mio trittico, composto, ispirato, sopra a un "unico bacio": quello che, dopo un crescente desiderio, inevitabile come una marea, e sogni e illusioni, sempre più travolgenti, sempre più intensi, porta d'un tratto, come un sortilegio improvviso, dalle porte del sogno, a precipitare all'interno del sogno stesso; dall'essere due individui distinti, a divenire, fosse anche solo per pochi istanti, un unico essere, con-fuso dal miracolo della metamorfosi del desiderio in amore. Quel bacio che si imprime per sempre nella memoria come un'improvvisa svolta della propria vita...

Lo dedico a voi, amiche e amici cari, come sempre, con amore
M.P.



Baci dati, un bacio preso.
Tre poesie sopra il bacio.

III

Come la lama di sole
che taglia in due il cielo
e interrompe l'uragano,
come la folata di vento
che turbinando s'abbatte
scuotendo mille e mille foglie
dai rami delle querce,
come l'onda dell'incrociatore
che squarcia la pace del mare
e sconvolge le onde nel profondo,
come la campana maggiore
del Santuario che squilla
i rintocchi del mezzodì
abbattendo il silenzio stupito
delle colline e delle valli.

Come lo stormo di storni
che improvviso
frullando mille ali
si leva in volo
empiendo il cielo
di palpiti ansiosi,
come le luci del treno
che sfilano fischiando
nella brughiera
interrompendo l'immote
tenebre della pianura
di istantanee scie
e volti assonnati
imbambolati nel loro
dissennato viaggiare.

Così, interrompendo
il flusso dei miei baci
e mutando ogni pensiero
in amplesso, s'abbattè
sopra le mie labbra
infuocate, febbricitanti,
asciugate dal vento
e riarse dal salso
della solitudine,
quell'unico breve
infinito profondo suo bacio,
che sembrò indugiare
in un bacio eterno, immenso,
e crescere come una marea
che alcuna diga potrà mai arginare.

Venne un suo unico bacio
e mi prese con sè, per sempre.

Milano, 7 Marzo 2013
Per Micky

mercoledì 17 aprile 2013

Baci dati, un bacio preso (1)


Amiche care, e amici, da donna innamorata, travolta dalla passione, e dal desiderio, ho cercato di fermare l'attimo del gesto più sublime che unisce due corpi amanti, prima e più profondamente di qualunque amplesso: il bacio.

È ciò che nel momento magico dell'inizio del rapporto di ogni amore più si desidera, fino a morirne. È il piccolo gesto di contatto intimo che fa crollare ogni barriera tra due soggetti, due personalità, due individui, con i loro timori, con le loro autodifese, e li rende unici.
Se ci pensate, l'amore è quanto di più contronatura un organismo deve affrontare in vita: significa porre in discussione l'integrità del proprio io per aprire le porte all'irrompere di un io estraneo, in gran parte sconosciuto, del tutto diverso da noi, e fin nel profondo del cuore, dell'anima e delle viscere.
Ebbene, in questo processo il bacio è il ponte che spezza l'isolamento, mette in comunicazione le due anime coinvolte, il primo passo verso la fusione finale dei corpi e dei destini.


È anche un soggetto difficilissimo da trattare, perchè abusato in ogni possibile letteratura, e se fossi sana di mente non mi ci metterei nemmeno. Ma non solo sono pazza, ma anche troppo innamorata per non osare di raccontare qualcosa di ciò che così tanto in quei giorni occupava la mia mente.
Scrissi così di getto queste tre liriche, distinte ma concatenate.
Le pubblico qui, data l'impegno e la lunghezza, in due parti. Nella prima le prime due liriche, anche perchè la numero uno è di fatto in forma di prologo per le due successive.
La terza, la più complessa e tesa, la pubblicherò qui nei prossimi giorni.

Le dedico tutte, come sempre, a tutte voi amiche preziose e amici cari, con amore.
M.P.




Baci dati, un bacio preso.
(Tre poesie sopra il bacio.)

I

Ciò che vorrei è ora un bacio.
Un solo bacio da lasciarti
come un'ape bacia il fiore
e il sole tenero d'aprile
bacia la neve sulle cime
permutandola in torrenti.

Ma il pensiero mente:
ciò che invece vorrei fare
è donarti tanti baci
quante sono stelle in cielo
e mai più fermarmi, mai,
fino ai confini delle galassie.


II

Vorrei darti un bacio sulla fronte,
perché è lì che il sole del meriggio
sorge e splende temperando
i tuoi pensieri e le tue memorie fonde.

Vorrei darti un bacio lungo e tenero
dentro i capelli, per sentirmi come un luccio
rifugiato, o in muto agguato, tra le alghe brune
ondeggianti pigramente nelle correnti.

Vorrei lasciarti ancora un bacio,
e un altro ancora, su ciascuno dei tuoi occhi
poiché è qui è che si cela il lampo
sfolgorante dei tuoi più roventi sogni.

Vorrei darti poi ancora un bacio grande
sulla spalla, perché è come questa dolce altura
coperta dalla neve, che al sole di un Marzo tardo
imbrillantata, impercettibilmente lentamente fonde.

E posare ancora un bacio lieve sul tuo collo,
per sentire che trasali e ti divincoli e mi sfuggi,
e ridi, con quel brivido fondo e morbido
che percorre per intero il tuo corpo chiuso.

Vorrei poi che il mio bacio più insperato
ti raggiunga sul tuo seno, inespugnabile fortezza
di grazia immensa, cuscino di profumi e fiori,
regione di inesauribili spaventevoli precipizi.

Vorrei baciarti i fianchi, ampi larghi come porti
atti ad accogliere e abbracciare le golette grevi
stanche del loro mai finito peregrinare tra gli scogli
e i mari più remoti e procellosi di questo mondo.

E ti vorrei posar le labbra proprio in mezzo al ventre
perchè qui pulsarvi l'ansia sento, e gonfiarsi vedo
e rilassarsi come fa una vela accogliendo i venti,
gli Alisei incostanti e i Monsoni grondanti nubi...

E vorrei ancora le ginocchia, e le caviglie tue baciare,
e mordere come in un dolce gioco i tendini soavi
che si tendono passo passo nel piacere che ti dono
consapevole dell'essere mia dolcissima regina.

E di baci ancora vorrei calzare, come sandali di petali
e di rami, i tuoi piedi tesi e fini e casti e verdi,
prima che s'involino superbi e svelti come mercuri
verso l'alto Olimpo abitato dalla tua progenie santa.


Milano, 7 Marzo 2013
Marianna Piani
(Per Micky)

domenica 14 aprile 2013

Abbecedario XIX


Amiche carissime, e amici gentili, siamo per così dire al "giro di boa": le ultime "voci" del nostro Abbecedario Poetico (T, U, V, Z), anche se vi riservo qualche piccola sorpresa verso il finale.

Questa composizione è una di quelle che io amo chiamare "raccontini in versi" (che alcuni apprezzano, altri meno, preferendo le mie cosette più "liriche"), anche se questa in particolare è più una "canzone", in qualche modo, una canzone venata di Tristezza, dato che la voce di oggi cade proprio sotto la lettera "T".

La Arielle di cui parlo qui è la madre di una delle mie amiche di Liceo, una splendida donna, francese di nascita e cultura, soprano leggero e - come fu mia madre - raffinata pianista e musicista di grande talento. Di fatto furono amiche fraterne, mia madre e Arielle, fin dai tempi del Conservatorio, dove si conobbero, così come siamo amiche tutt'ora (anche se lei è lontana e la vedo ormai pochissimo, sta in Francia) sua figlia ed io.
Mia mamma, come molte di voi sanno, mi ha lasciata prematuramente, cosa da cui non mi sono mai veramente riavuta.
La sua, Arielle appunto, ha avuto forse un destino peggiore: una forme di Alzheimer precoce si è abbattuto all'improvviso su di lei, ancora giovane, e le ha gradualmente ma rapidamente cancellato la mente.
Fui ospite di questa mia amica, in Francia, per qualche giorno proprio attorno ai giorni del mio compleanno (da cui la data di composizione) ed ebbi modo di parlarne con lei, e di vedere le sue foto, e di andare a visita nell'Istituto dov'è ormai ricoverata da anni.


La "Triestezza" di cui parlo qui, una tristezza infinita, è quella che si prova di fronte al disfacimento di una mente brillante, viva, piena di talento e di voglia di creare; il vedere una donna di una bellezza radiosa, ammiratissima, mutarsi in una specie di inespressivo manichino, oppure di una rabbiosa cavalla impazzita, oppure, a sprazzi, di una confusa persona che si guarda intorno, smarrita, con occhi opachi, anche se ancora stupefacentemente belli.
Nulla si può fare. Solo ricordare l'Arielle che era, e cercare di lenire l'indicibile incomprensibile sofferenza della "cosa" in cui si è mutata, in attesa solo della liberazione finale di quello spirito, forse sotto quelle catene ancora indomito, in grazia della Morte.
Tuttavia non vi rattristate, amiche care, questa è la vita, anche questa. E in questa tristezza c'è incastonato il senso tenerissimo di aver conosciuto un fiore che è rimasto per sempre incontaminato, bellissimo, nella memoria di chi l'ha amata e di chi ha avuto la fortuna di esserne amata.
Abbiamo pianto a lungo, quella sera, la sua figliola ed io, ma poi ci siamo strette, ciascuna nella propria tristezza comprendendo quella dell'altra, e siamo andate a vederci un bel film, e poi ci siamo trattenute a chiacchierare e a parlare di cose futili o importanti fino al mattino, come facevamo quand'eravamo compagne di classe. Con il mio "Francese", che la fa sempre così tanto ridere…

Dedico questa canzone alla memoria di Arielle, alla mia amica Emanuelle, e naturalmente a tutte voi, amiche care, e amici dolcissimi che mi seguite, come sempre, con amore.

M.P.




Abbecedario XIX


T

come Tristesse

Arielle, nome di vento
e di prodigi:

chi è stata, Arielle,
che oggi mi osserva
da dietro i suoi occhi di cielo
ancora come il cielo
tersi e sinceri?

Un ritrattino inanellato
in una spessa cornice d'argento
sul comodino: è ciò che rimane
di ciò che è stata
Arielle da Passy, Francia: la fata.

Il viso nè affilato nè pieno,
acceso dall'indifeso rossore
dei suoi vent'anni splendenti,
il sorriso sulle labbra
colme d'amori innocenti.

Chi è, chi è stata questa Arielle,
morbidamente involta
nella luce grigiata del ritratto.
la mano sua snella d'artista
appoggiata con intenzione al mento?

Che è della grazia,
della gioia agguerrita
del suo incedere ardita
tra le vie maestre del mondo,
da bimba a fanciulla, e poi a donna,

sempre costantemente ammirata
da ogni sguardo, da ogni pensiero,
da ogni amico sincero,
per la sua elegante, compiuta,
fiammante bellezza?

Che è, che è stato
del potere fatato
del suo sguardo senz'ombra
che sapeva piegare a piacere
la più indomita fiera

e il più fiero Cavaliere?
Che è stato per questo mondo
la sua intrepida mente,
la sua intransigente
travolgente libertà di essere sè?

Com'è stata custodita
nell'effimera vibrazione
di una corda nell'aria
la sua ansia di canto
il suo melodiare d'incanto?

Che è più del ricordo
del suo arpeggiare sapiente
a canone inverso
le note del suo genio diletto,
fino a farle scintillare

come una cascata di perle
liberate dal filo
sulla tastiera del suo piccolo
Steinway verticale
voluto e amato per tutta una vita?

Che è, dov'è ora perdio
questo sconfinato mondo
di pensiero, di bellezza,
di passione, desiderio, sapienza,
orgoglio, verità, indomita fierezza?

Oltre il lamentoso portone
di quella casa tra i platani
del viale alberato,
oltre il muto androne,
al pimo piano ammezzato,

Arielle ci osserva,
con gli occhi di sempre,
chiari e vivi come il cielo
delle sue terre,
a settembre.

Ci guardano stupiti
dal fondo di un abisso
se pur color cielo
non per questo meno
sprofondato e scisso.

Non sa chi noi siamo:
la sua figlia diletta,
e io, la di lei amichetta
di un'intera vita,
e ci guarda, e s'aggrotta

d'ostile diniego.
La mente, la sua brillante
infaticabile mente
già da tempo ormai
ha riempito lo zaino

della sua giovinezza
ed è partita, come lei faceva
nei suoi anni verdi,
per un lungo viaggio
senza meta, e, stavolta

senza ritorno…
Lasciando dietro a sè
il corpo vivo ma morto
di ciò che fu la stella
più bella del suo firmamento.

Come una pianta
che piano piano si sfoglia
e piega lentamente
i vigorosi rami
nell'inverno incombente.

Rimangono, fulgidi, chiari
più grandi che mai
nel volto che si chiude,
gli occhi suoi di sempre
due oceani liberi e puri.

Velati da una indicibile,
silenziosa, stupita,
intollerabile, insostenibile,
tenera, dolceamara, immensa
tristezza…


(A Emanuelle, con amore di sorella)

Milano, 25 Luglio 2012
Marianna Piani

sabato 13 aprile 2013

Inattesa


Amiche mie dilette, amici cari, nel mio precedente intervento qui ho cercato di descrivere il senso dell'attesa.
Ma spesso, dopo l'attesa, arriva - inattesa - la sua soluzione: viene l'Amore, come il fulmine precedente il tuono, e sposta tutto, sconvolge tutto, modifica tutto.
Noi siamo abbarbicate alla nostra solitudine, come a una ciambella di salvataggio, e ci lasciamo trascinare dalla corrente, pigra o impetuosa, della vita, che ci bagna e ci piega le ossa; quando arriva improvviso quel vento, e non siamo pronte, mai siamo pronte a ciò, e respiriamo affannate le spume sollevate da quel soffio potente, travolgente, sconvolgente…
Non sappiamo se sarà tempesta, fortunale, uragano o breve temporale di passaggio. Possiamo solo accoglierlo, accecate dalla pioggia che ci frusta lo sguardo e ci inonda i capelli, rendendoli grevi, densi, e più belli… Ciò che al momento nemmeno immaginiamo è quanto belle siamo, così sconvolte, quando ci innamoriamo…
Dedico questa mia piccola cosa a Micky, che ho tanto amato e amo, e a tutte voi, amiche care, che sapete farvi cogliere sempre impreparate dall'amore, e ai vostri amori e amanti, che sanno ispirarvelo.
M.P.




Inattesa

E venne questa fiamma,
questo ammasso globulare
di luce, incandescente,
venne, scoccando
come una freccia, che schianta
con un botto secco
contro l'uscio di legno
massello: così lei venne!
All'orizzonte, oltre il mare,
sfolgora improvvisa la saetta,
e scatena lo stormo dei gabbiani
in un volo panico lampeggiante
bianconero di ali agitate
frenetica fuga di anime caste.

Venne tale quale come viene
l'annuncio di una sventura,
o la notizia d'una somma gioia
prematura. Venne, improvvisa
come un cavaliere al galoppo,
da dietro l'altura,
o come l'aviogetto in volo radente
esplode il suo bang sopra le chiese
e le teste dei villaggi assopiti nel loro
pigro sereno meriggiare.
Venne senza annunciare
alcuna venuta, senza lanciare
avanti a sè alcun segno,
venne soltanto per illuminare
a giorno il mio personale giorno.

Venne soltanto quando
l'anima mia, e il mio cuore,
e la mia mente, da sè divise,
erano distanti, da me lontane,
disperse nel vasto echeggiare
di vuote stanze, e incolti giardini,
di un palazzo senza più storia
nè memoria: quando non v'era
più attesa nel mio percorrere il tempo,
nè speranza, nè fervore,
e le ore, e i giorni,
parevano sedimentare
sopra i giorni, e le ore,
come strati di fango sopra la torba.

Venne, la gioia, suprema,
e s'impadronì del mio tempo,
venne, e precipitò su di me
come l'acqua d'un lago
tracima la diga,
tutto sradicando
da ogni certezza,
e dragando la valle
fino alla foce, e alla fine...
Il rimbombo della mia mente
sconvolta e scossa
dalla sua quiete
destò l'intero mondo
dal suo indifferente sonno.




Milano, 28 Febbraio 2013
Marianna Piani

mercoledì 10 aprile 2013

Attesa


Amiche care, e amici, una poesia d'amore, certo… Ma d'amore pieno, scoperto, appassionato…
O meglio, la cronaca puntuale, come annotata nervosamente al taccuino, dell'attesa che arrivi, all'appuntamento, questo amore, ritardatario, come sempre…
Una poesia piuttosto lunga... perché lunga è l'attesa.
Io sono ansiosa, fino al patologico, e per questo sono puntualissima, anzi io arrivo in preferibilmente anticipo agli appuntamenti, e a volte per non fare la figura della scema, aspetto che sia l'ora giusta, rodendomi, e magari aggiungo cinque minuti in più di finto ritardo… Invece tutti i miei amori sono stati ritardatari inveterati, non so perchè, e questo non fa eccezione. E io, "ansiosa fino al patologico", mi arrampico sui muri per l'angoscia, nell'attesa. E quanto più sono innamorata, tanto più è lungo e tormentoso è il ritardo. Oppure mi pare che lo sia, il che è lo stesso.
Poi lei arriva, serena, come se nulla fosse, e io invece di prenderla a ceffoni la copro di baci. E lei, sorpresa, pensa che io sia matta... come peraltro notoriamente sono…


Per voi amiche, puntuali o ritardatarie, e per voi amici cari, ritardatari o puntuali: che aspettate, o che vi fate aspettare - con pari amore.
M.P. ♥




Attesa

 

Vado, turbinando
come una foglia vizza
nei soffi e sbuffi impazienti
della tramontana,
o come una biglia
impazzita impazzando
nel moto browniano
di un flipper squinternato,
tra mura e mobilio,
senza direzione nè mira.

Ogni fermata
è una spinta,
ogni sosta
è subito un balzo
alla prossima sosta.
Ho ripassato le labbra
più volte,
insoddisfatta di segno
e di tinta.
Ho mutato pensiero
su ogni capo
del guardaroba,
incerta se apparire
in bianco, oppure in nero.
O in rosa, o a colori
d'arcobaleno.
O anche in fiori. Oppure
adornata di pizzo e d'organza.
Ho tormentato
la punta delle unghie
con i denti,
incidendo lo smalto
di tacche e di graffi,
come la carena
d'un brigantino in disarmo.

Ho cercato pace
rassettando la stanza,
senza fortuna,
abbandonando nel mezzo
del pavimento, orfani,
secchio e vileda.
Ho indossato, reindossato,
ho provato allo specchio
scarpe di foggia diversa,
alte, troppo alte, troppo piatte,
troppo usuali, troppo
casuali, troppo azzardate,
troppo chiuse, troppo nude...

Ho aperto la posta
e ho letto messaggi
senza capirne il senso,
mi sono costretta seduta
sopra il divano,
le gambe raccolte sotto il sedere,
incrociate, scorrendo le timeline
sul fonino, che odio detesto
quand'è così silenzioso.
Le gambe impazienti
di frenesia e incapaci
di rimanere ferme
anche un solo momento
mi hanno forzato a rialzarmi,
e a ripercorrere la stanza
come una tigre allo zoo
che misura la gabbia
avanti, e indietro,
e ancora avanti,
e ancora indietro,
con trattenuta impotenza
e rabbia repressa.

Appoggio la fronte
sul vetro della finestra
guardando il vapore
del mio fiato
offuscare la strada
affollata di frettolosa
umanità senza parte alcuna
nella mia vita...
E ripercorro ancora
in me stessa
la mia attesa.
Ogni rumore, ogni struscio
accanto alla porta,
ogni indizio
di vicinanza,
ogni speranza
d'un arrivo
è un sobbalzo
nel ventre e
si configge
fino al cuore
del cuore.
Ah!

Tutto questo subivo,
quaggiù sulla Terra,
stretta nel tempo
che scorreva e mi serrava
in un sempre più angusto
urticante disagio.
Ma avrei scavalcato
muraglie di pietra,
alte fin sopra le nubi,
avrei risalito
seracchi di ghiaccio
brucianti di gelo
a mani nude,
scuoiando i palmi
fino alle ossa,
avrei scavato le rocce
che mi separavano
da ciò che era la mia vita,
rodendo con l'unghie
il granito compatto,
pur di crearmi
un qualunque
sotterraneo passaggio.
Avrei sfidato
le raffiche dei monsoni
e le furie degli alisei,
avrei risalito
le rapide schiumanti
del Colorado,
e le correnti turbinose
dei fiordi,
e avrei rincorso
le comete, e le Perseidi
sciamanti in notti
come queste,
baluginanti
come ricordi.

Tutto questo
avrei fatto,
e più ancora,
pur di raggiungerti,
amore mio caro,
pur di non rimanere
ancora così, sospesa,
pur di abbreviare
questo supplizio
che mi vede rinchiusa
tra la fine e l'inizio,
tra la morte e la vita,
legata da invisibilill
lacci di tempo.
Se l'eterno non è umano
quant'è inumana,
amore mio,
questa attesa?


Milano, 27 Febbraio 2013
Marianna Piani

domenica 7 aprile 2013

Abbecedario XVIII


Amiche care, e amici. La lettera S, la nuova inevitabile voce del nostro piccolo abbecedario, mi ha portato ad affrontare un tema per me assai doloroso, anzi atroce, come molte delle amiche più intime già sanno.
Infatti io sono, per dirlo con una definizione "fredda", una donna sterile, irrimediabilmente: in altre parole, non potrò mai avere nella mia vita l'esperienza fondante e fondamentale di ogni donna, quella della maternità biologica, quella per cui l'intero nostro organismo fisico e psichico è stato architettato, dalla Natura e da Dio.
E la Natura e Dio sanno quanto ho desiderato, anelato divenire mamma, e quanto ho sofferto in tentativi, cure, torture, per sentirmi infine dire da medici impotenti e rassegnati che nulla più si poteva fare.
Avrei voluto perpetuare quel senso materno così meravigliosamente trasmessomi dalla mia mamma. Sentivo che avrei potuto essere come lei, per la mia bimba, Alice, mai nata. Il Sole e la Luna, l'universo intero.


Mi rimane il rimpianto infinito, e il senso dell'incompletezza, di essere, ancora una volta e più che mai, incompleta, irrisolta, come donna, come femmina, come persona.
Un qualcosa che ha segnato un solco profondo nella mia vita, e che, vi giuro, è per me assai difficile esprimere, a parole. Quando vorrei soltanto piangere, e basta.
Ma dirlo lenisce, in qualche modo, il dolore, perchè lo rende concreto, vissuto, anche se mai superato.
Lo dedico a voi, amiche care, e amici gentili, più che mai, con amore.
M.P.




Abbecedario XVIII

S


come Sterilità.

Si erge, inaccessibile, impervia,
superba, contro il cielo viola
la vetta, come una temeraria spada
di roccia viva.

Altre torri, intorno a lei, silenti,
sfidano le stesse altezze,
le stesse nubi,
gli stessi spietati venti,
le stesse nevi, gli stessi soli cocenti,
le stesse stagioni di immutabile
orgogliosa solitudine.

Di certo, quello spasimare,
quell'anelare instancabile
alla purezza, alla rarefatta bellezza
di quelle quote estreme,
è per quelle desolate cime
il disperato canto
elevato al cielo
per chiedere ragione
del loro infinito dolore:

dentro quelle loro rocce,
calcinate dal passaggio
di gelo e di fuoco,
spaccate e fratte,
alcun seme, dai venti più esotici
lasciato, o dimenticato, o abbandonato,
avrebbe mai potuto in alcun modo
generare alcun germoglio.

. . .

Il sole muore all'orizzonte.
Le rocce sulla cima
si tingono di puro corallo
in un ultimo impareggiabile
infuocato atto
di superbia e di grazia.



Arona, 15 Luglio 2012
Marianna Piani


sabato 6 aprile 2013

Rosa Ingannata




Amiche care, e amici gentili, la composizione che segue è nata come può nascere d'incanto un fiore in un giardino (e proprio di questo parla): spontaneamente, senza sforzo alcuno, quasi fosse scontato il suo esserci, lì, in quel luogo, in quel momento.
In un intervento su Twitter, Alessandra e Mara - non ricordo come - avevano accennato alla ispirazione che poteva generare un soggetto apparentemente banale come una Rosa. Io, o meglio, il mio piccolo démone poetico, colse la palla al balzo e mi portò a comporre in pochi minuti questi versi, che qui riporto con minime variazioni per conservare la "freschezza" e l'autenticità dell'ispirazione.
Io da sempre - e non solo io ovviamente - ritengo la Rosa come la metafora "assoluta" della femminilità, in tutti i sensi. E forse per questo costituisce uno dei soggetti più fecondi della mia ispirazione. Anche se, come tutti i soggetti "intrinsecamente" poetici, è particolarmente arduo da affrontare senza scivolare in banalità o deteriori romanticherie, per cui è molto insidioso per scriventi tendenzialmente "romantiche" come sono io…
Dedico questa lirica quindi in primo luogo alle amiche che mi hanno dato "il la" per generarlo, e a tutti voi, naturalmente, amiche care e amici, come sempre con amore.
M.P.




Rosa Ingannata
 
Una Rosa
petalo per petalo
come un sole di Aprile
s'apre al mattino
illuminando il Giardino.

Una Rosa: bianca di fede
per il creato che l'inonda,
rossa d'ardore
per il bisogno d'amore
che la riscalda,
verde speranza
per l'alba che presto
sarà per lei giorno
e poi fulgore pieno
del mezzogiorno sereno.

Una Rosa: sfogliata
petalo per petalo,
mirabile canzone,
bellezza per bellezza,
che nel cuore del fiore
custodisce il segreto
dell'intero Creato.

Una Rosa, una Rosa sola,
una Rosa precoce,
illusa da un tepore
che cela il gelo incombente
d'un inverno ancora pieno.
Una rosa perduta
come una goccia
di sangue lucente,
nell'aiuola.

Una Rosa che s'apre
per amore d'amare,
e così poi, nel morire,
dona al suolo grigio,
ancora riarso
dall'aspra tramontana
uno a uno i suoi
teneri petali fragranti
di primavera agognata.

Una Rosa: lei sarà così
e rimarrà per sempre
la Rosa che fu ingannata
da un sole d'inverno.
E quando sarà la Luna d'Agosto
a illuminare in piena notte
un Giardino prodigiosamente
affollato di fiori e di essenze,
tu rivedrai come in un sogno
quel bocciolo purpureo
in mezzo ai rami ancora spogli
posato come un bacio
e ti commuoverai
al ricordo.



Milano, 23 Febbraio 2013
Marianna Piani
Improvvisata, di prima mano, per Alessandra e Mara.

mercoledì 3 aprile 2013

Dodici


Amiche care, e amici gentili. Oggi vorrei giocare un pochino.
La Poesia, come tutte le grandi Arti (anzi, io oserei dire che la Poesia è alla base di TUTTE le Arti, ma questo sarebbe un discorso lungo, qui non è pertinente) ha la facoltà di poter esprimere emozione attorno a ogni piccola cosa, a ogni sia pur umile dettaglio della vita, e non soltanto a immagini supreme o pensieri sublimi. A volte mi diverto a lasciare libera la mia ispirazione, come un bimbo in un giardino, di sbizzarrirsi con ciò che gli pare. Con la fantasia, con l'immaginazione, andare a sfiorare corde riposte, eppure così presenti nella nostra vita.
Io qui mi sono "lasciata andare" a comporre, un poco per gioco, un poco per sfida con la Musa - come la chiama un mio carissimo amico, che probabilmente qui trasalirà leggermente - una piccola lirica dedicata ad un accessorio che molte di noi (e io di certo sono tra queste) ama molto, di una passione a volte allegramente travolgente, sfrontatamente irrazionale, noi che in altre situazioni siamo gelose e orgogliose del nostro intelletto e della nostra cultura solidamente e positivamente femminile.
Non voglio rivelare l'arcano, lo lascio un poco come un indovinello, a partire dal titolo: tanto so che tutte (e penso molti dei nostri  amici, tra quelli che meglio ci conoscono) lo capiranno...
Ragazze, ce la dedichiamo questa cosetta, un poco per diletto, e un poco per passione?
Per voi, amiche care, per noi, e per i nostri amici e compagni cari, con amore.
M.P.


Dodici

Sono belle, sono ardite, sono svelte,
sono flessuose, e rifinite, e snelle,
sono abbaglianti come i gioielli delle stelle,
sfrontate inaccessibili provocanti folli
elegantemente tornite, intangibili e distanti.

Puntano gli spilli sui selciati, vagamente incerti
e con sicuro svelto ardore, ticchettando il ritmo
del nostro cuore; si tendono le caviglie nei passi
che si fanno brevi e spicci ad aggredire vita
dopo vita, a divorare viali forse mai prima osati.

A volere ed essere sulla punta dei nostri piedi
in cima al destino nostro: ci elevano, come ali
mercuriali alle altezze astrali dei pensieri,
ci danno il respiro di un volo oltre il cielo,
oltre le sfere delle nostre più riposte e sentite fedi.

Quale emozione scivolare in quel dolce abbraccio
di pelle e lieve eccitante strazio, e d'un tratto
vedere le prospettive mutare intorno, e sentire il corpo
e poi la mente cercare un equilibrio sopra il filo
teso della vita tra qui e domani, tra noi e il mondo.

Indossiamo ciò che siamo, femmine insoddisfatte,
femmine ardite, femmine elevate, femmine placate.


Marianna Piani
Milano, 7 Febbraio 2013

martedì 2 aprile 2013

Abbecedario XVII


Amiche care e amici, siamo al diciassettesimo capitolo del nostro piccolo "abbecedario" poetico. Con un leggero ritardo sul consueto, a causa di mei spostamenti in occasione delle festività Pasquali.
La lettera "Erre" è un'altra di quelle tanto ricche di possibili spunti e reminiscenze da lasciarmi veramente soltanto l'imbarazzo della scelta.
Mi sono decisa infine sulla "voce" che più mi suscitava memoria, e ho scelto un tono di scrittura molto narrativo, aneddottico, per stemperare la tensione del ricordo, ritagliando un frammento di vita, anzi, d'infanzia, direttamente dalla mia memoria. Come una di quelle foto d'album, con gli inconfondibili colori Kodacolor, gli aranci e i rossi leggermente dilavati dal tempo trascorso in un cassetto.
È il ricordo di quando andavo, con la mia famiglia, a visita presso una zia che mi amava particolarmente, e con la quale io avevo un feeling speciale. Trascorrevo assieme a lei delle ore, mentre lei mi raccontava i segreti delle piante e dei fiori del suo giardino. Davvero penso che fu da lei che appresi il mio gusto per il colore, e per il rigoglio della natura. Ed ella fu poi la prima morte di una persona a me vicina cui assistetti. Il primo - a quel tempo, ma anche ora - inspiegabile dolore. Il primo, purtroppo, di una lunga serie, ma che per questo non riuscii mai a dimenticare.
Offro ora a voi, amiche care e amici, questo piccolo "raccontino in versi", con amore, come sempre.
M.P.



Abbecedario XVII

R

come "il Roseto".

"Andiamo dalla zia Flora!"

si diceva, in famiglia, e allora
per me bimba, voleva dire pura festa,
voleva dire viaggio,
voleva dire l'abbraccio
di una nonna che stravedeva per me.

Lei non era nonna, a me, era zia,
ma per me era come fosse la nonna
che non avevo mai avuto, di cui mamma
spesso narrava. Abitava una casa sulle colline
sopra Vicenza, appena fuori Monteviale.

Fui io, Per prima, a chiamarla Zia Fiore,
poiché era Iris il suo nome - e mamma
m'aveva spiegato che era un nome di fiore -
e perchè lei come un folletto - era proprio piccina -
abitava perennemente il suo giardino, tra i fiori.

"Fiore" ben presto divenne "Flora"
e quindi per tutti, da allora,
"Andiamo da zia Flora"
fu il detto. E tutti assieme, in tre ore,
Autogrill compreso, eravamo da lei.

Zia Flora abitava dunque il suo giardino fiorito
da mattina a sera, proprio sempre, pareva,
e curava il prato, carezzava le albicocche
perchè fossero felici, impigliava i capelli ormai radi
tra i fitti tralci della vite e le siepi di bosso.

Mi chiamava presto, ogni mattina, per aiutarla
a irrigare le aiuole e l'orto, come un gioco.
Lei stendeva la lunga canna, io rimanevo
dietro l'angolo, sul retro, al rubinetto.
Non la vedevo, ma lei mi guidava a gran voce.

Alla sua voce, dunque, aprivo la mandata,
e dopo poco, il gorgoglio arrivava all'altro capo,
e subito lei mi gridava: "Massaaaa!"(*)
Allora mi affrettavo a chudere - ma un poco - il flusso.
E in risposta subito giungeva grido "Massa pocooo!"(**)

E io, ridendo rialzavo, e riabbassavo, più volte
sempre dietro quella sua voce, con la cantilena
marcata di quei luoghi, finchè trascinata dal gioco
aprivo troppo davvero, e lei allora, da dietro il cantone:
"Varda Marieta, che se vegno là te le dago!"(***)

. . .

Zia Flora, nella sua antica saggezza
mi aveva compresa già allora, nel profondo,
seppure ero appena uno scricciolo cui mancavano
due denti davanti: in ciò che sono, e sempre sarò,
nel mio darmi sempre troppo ed esser troppo poco.

E sapevo che mi adorava, zia Flora, anche se
le innaffiavo il vestito, e quand'era il momento
mi conduceva in silenzio, come una maga nel suo
cerchio segreto, a ciò che lei sopra ogni cosa
adorava: il suo fatato roseto.

Era immenso, ai miei occhi di frugoletto
dagli occhi sgranati, troppo grandi per il viso,
e vi fioriva, in stagione, ogni sorta di rose,
rose rosse, rose bianche come bambagia, e gialle, e dorate,
e vermiglie, vellutate o splendenti, e piccine o immense.

Fu dunque Zia Flora, vedete, ad insegnarmi
le mille varianti e coniugazioni della Bellezza,
fu lei a introdurmi al linguaggio incantato
dei colori, dei toni, delle cromie, e fu lei per prima
a svelarmi tra i petali serrati il cuore indifeso della rosa.

Fu lei quindi a farmi intuire, senza dire, come e quanto
quel cuore delicato, intricato, dorato, segreto,
strettamente raggomitolato dentro un viluppo
di veli di velluto, non fosse che il ritratto
di ciò che ogni donna custodisce nel petto.

. . .

E fu lei la prima creatura, la prima tra le più amate,
che vidi strapparmi dalla vita alla mia vita.
Lei e il suo roseto.
E quando fui nella chiesa, stretta tra mamma e papà
dagli occhi arrossati, non compresi pienamente:

che non era più un gioco, di lei, con sua Marieta.
Ma che da allora e per sempre, non li avrei più rivisti,
nè lei nè il suo roseto. Mai più:
Marianna, lo sai tu ora cosa vuol dire,
"mai più"?


Marianna Piani
Milano, 22 Luglio 2012

(*) "Troppo!"
(**) "Troppo poco!"
(***) "Guarda, Marietta, che se vengo lì, le prendi!"